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Eraldo Baldini. Le lunghe ombre fredde

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Un sottobosco di non detti si muove nel limo di questa vicenda. Somiglia al rumore delle foglie secche mosse dai primi venti autunnali, par di sentirlo in ogni pagina, un mormorio che si porta sulle spalle i fattacci di una storia, ahimé, tragicamente (dis)umana. Fa strano che sia proprio il maestro del gotico a portarla in libreria. Un autore, tale Baldini, che può vantare nel suo corposo curriculum persino l’aver coniato un genere (mica briciole!) portato avanti con una penna delle più coerenti, stilisticamente e tematicamente. Una mente foriera di suggestioni noir che negli anni non s’è mai intimorita dal metter piede oltre la soglia del conosciuto. Strizzare l’occhio a leggende e superstizioni può esser gioco di bambini ma quando il male nelle viscere che non concede il sonno nulla a che vedere con il Boogieman dietro la porta, come s’ha modo di affrontarlo?

Baldini torna sulla scena con una storia semplice semplice: Fausto e Birgit si sono conosciuti nei gironi dell’inferno ben noto. Sulla pelle portano ancora le cicatrici di quel filo spinato il cui nome, Mauthausen, presto entrerà nei libri di ogni scuola. Lui, soldato italiano, lei, detenuta politica tedesca, di quel vivere nel ventre del conflitto non ne vogliono più sapere. La liberazione è l’occasione per rifarsi della vita sottratta, la fuga, l’unica possibilità di redenzione. Scappare assieme, come in un film romantico ma senza il sottofondo di note strazianti bensì la sola pragmatica esigenza di tornare a respirare. Il luogo della ripartenza sarà “Fort Apache”, così viene chiamata la vecchia dimora nel paese natale di lui. Uno sputo di case nella bassa Padana le cui nebbie onnipresenti paiono fatte apposta per ingoiare e trattenere gli spauracchi di ciò che è stato.

«La vasta arena buia in cui vivevamo, fatta di terra e d’acqua come al tempo dei tempi, in cui la nostra casa pareva davvero un fortino messo a guardia dei confini del nulla, si accese diventando un’inusitata isola di luce. Uno spicchio di nero cosmico illuminato dal repentino comparire di una cometa. Una lanterna nelle tenebre di una smisurata caverna.»

L’autore torna in questo modo ai luoghi ben cari: quella pianura che un po’ il campo di battaglia lo ricorda, livida di casolari diroccati e fossati acquitrinosi dove ai “bambini del dopoguerra” basta un salto dell’argine per diventar “bambini della palude”. Ecco dunque che la storia, in questo nuovo scenario, è libera di svilupparsi attraverso due linee temporali frapposte: da un lato ciò che realmente accadde quel maledetto 1945 tra i confini di Mauthausen, dall’altro, la quotidianità di Kleiner, figlio intraprendente della coppia che non si accontenta di una madre che “andava dal mostrarsi chioccia zelante alla più ruvida e silenziosa riservatezza”. Il personaggio è lei, su questo non vi sono dubbi: Birgit, donna spezzata nelle venature di un marmo che non cade in frantumi, con gli occhi opachi, scavati nelle ossa, che risponde “molto lontano da qui” quando le si chiede da dove proviene e in quella comunità al limite del mondo fatica a riconoscersi.

«Non le era stato facile decidersi a quel passo. Rifuggiva ogni occasione simile, detestava lasciare la sua casa nella palude per trovarsi tra la folla. Ma era consapevole, allo stesso tempo, che il suo continuo bisogno di defilarsi non poteva basarsi per sempre sull’assenza totale. Perché l’assenza, se si protrae, non fa che provocare curiosità e dicerie che quella curiosità la alimentano.»

L’alternanza passato presente si rivela sin da subito funzionale a dilatare i toni plumbei delle parti ambientate durante il conflitto e il doppio punto di vista aiuta il lettore in una ricostruzione tridimensionale delle atmosfere emotive che attraversano il nucleo familiare. Bastano poche pagine alla stipula di un patto empatico con un figlio spigliato, “alla buona” verrebbe da dire, che nella solitudine di una campagna distante due chilometri dalle prime case, riesce a costruirsi un universo di rituali assieme ai quattro fratelli e Zio Livio.

«Spesso ci godevamo l’approssimarsi e lo scatenarsi di un temporale. Prima l’annerirsi di una parte del cielo, dove le nubi divenivano un bastione alto e severo come la cinta di uno smisurato castello. Un fronte cupo pulsante di baleni e di tuoni. E il respiro del mondo trattenuto all’estremo, in minuti lunghi e incerti, fino all’inevitabile erompere di un violento soffio repentino, pauroso e liberatorio insieme.»

Son giorni semplici fatti di rituali preziosi, tramandati nei ricordi di una famiglia che ce la mette tutta per arginare la voragine.

«Non avete idea di cos’ha sofferto», potessi riassumere in una frase l’anima tutta del libro, sceglierei questa. Quasi che una parte del suo sguardo di Birgit non sia mai riuscita realmente a scavalcare il confine di quei cancelli. Il trauma sopito, mai realmente sconfitto men che meno affrontato, il morbo che ritorna durante i momenti vuoti, nei silenzi di una casa le cui radici sono state estirpate dalle mine, questo dunque il vero nemico. Non è più tempo di streghe o spiritelli, forse è ciò che ci vuol dire Baldini, il male gravido è tutto materia nostra. Non serve perciò ripararsi dietro metafore o barricate stilistiche, le vere storie necessitano di una lingua che le celebri per quello che sono. In questo ho gioito, eppure molto, nel rileggere un autore a cui mezza libreria v’ho dedicato e riconoscerlo, di nuovo, in quel suo modo schietto, semplice, di saper trattare il magma nero per farne pasta da scultura.

Al venticinquesimo romanzo (tralasciando una saggistica altrettanto generosa), con un doppio twist finale la cui semplicità fa rima con genialità, attingendo da un tema noto ma riuscendo a modellarlo secondo il dogma della sua scuola, Baldini si riconferma cantore d’altri tempi, altra forgia. Che tale maestria nell’imbastire mondi non s’abbia mai da perdere, semmai preservare e tramandare, che certe menti son preziose quanto il portato di ciò che raccontano.

Stefano Bonazzi

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Le lunghe ombre fredde

Eraldo Baldini

Rizzoli

19,50 euro — 224 pagine

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