Per Le Tre Domande del Libraio su Satisfiction questa settimana incontriamo Salvatore Toscano con il suo romanzo d’esordio dal titolo “Gli stupidi e i furfanti” pubblicato da Baldini+Castoldi nella Collana I Lemuri a giugno 2024. Salvatore Toscano è nato e vive a Pomigliano d’Arco, ha pubblicato Infinite Loss, un breve saggio su David Foster Wallace e ha curato la postfazione di Diario del caos di Antonio Moresco.
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“E se i libri fossero solo contenitori di frustrazioni di gente che avrebbe preferito essere altrove e fare tutt’altro e che per qualche motivo perverso si è inflitta la crudele disciplina della scrittura?”
Salvatore a pagina 119 del tuo libro compare questa frase, particolare anche all’interno della narrazione; a partire da questa frase ci vuoi raccontare il tuo percorso nel mondo dei libri e della scrittura, per poi spiegare come nasce l’idea iniziale de “Gli stupidi e i furfanti” e come sei arrivato al gruppo de La Nave di Teseo?
A rileggerla così, decontestualizzata, la frase che citi suona un po’ inquietante: sembra quasi una sentenza macabra, inappellabile. La letteratura trasformata in un gorgo mefitico in cui si rimescolano tutte le nostre pulsioni peggiori (cosa che tra l’altro teorizzano molti cinici, pessimisti, disillusi dai quali mi sento lontanissimo). Mi viene in mente quella magnifica e orripilante isola di rifiuti nel Pacifico, Pacific trash vortex, in cui le correnti oceaniche fanno convergere tutta la monnezza che noi umani indirizziamo impunemente verso il mare: ma la letteratura, per fortuna, non si lascia sminuire così, non ci permette di definirla una volta per tutte attraverso la lente deformante delle nostre idiosincrasie, non si lascia ingabbiare da queste metafore più o meno suggestive ma sempre parziali, sempre più o meno fasulle. Però sulla disciplina penso di poter dire qualcosa di drastico, senza tentennamenti: per come sono fatto io, vista la mia indole pigra e sprecona (di tempo, di occasioni), la disciplina è una conquista, un punto di arrivo a cui non vorrei mai rinunciare. Ho bisogno di impormi un metodo, degli orari, soprattutto nella fase iniziale della scrittura. Poi è ovvio che se scrivere fosse soltanto questa specie di esecuzione forzata di un compito ingrato, di pratica masochistica, non si andrebbe da nessuna parte…Ti ricordi la famosa immagine di Vittorio Alfieri che si faceva legare alla sedia dal domestico per obbligarsi a scrivere? Il suo “volli, fortissimamente volli”? È una storia molto divertente perché ci viene sempre raccontata come esempio di dedizione totale alla scrittura: in realtà Alfieri si faceva legare alla sedia per evitare di cedere alla tentazione di andare a corteggiare (o a importunare) una donna che gli aveva fatto perdere la testa…Insomma, dopo qualche giorno di obbedienza alle regole che mi autoimpongo, succede una cosa bizzarra che se provo a spiegarla sconfino nel paranormale, nel delirio mistico: vengo afferrato dal vortice delle immagini mentali, dal fragore musicale della sintassi, e passo giornate intere a scrivere dimenticandomi di mangiare, staccandomi dal computer solo per andare a dormire nella speranza di svegliarmi prima possibile per riconficcarmi tra le pagine, tra le fantasticherie, tra le parole che sto inventando come se fossi il primo essere umano al mondo a sperimentare l’inebriante e rincoglionente felicità dell’atto creativo. Niente di originale, temo. Irving Stone ha intitolato il suo romanzo su Michelangelo Il tormento e l’estasi, e persino un fessacchiotto come me comprende a che cosa si riferisce: tormento ed estasi sono le valli e i picchi delle montagne russe che qualunque artista che si rispetti è condannato ad affrontare, senza poter contare su dispositivi di sicurezza, senza la garanzia di arrivare a un traguardo, senza sapere per quanto tempo durerà il lungo itinerario che si snoda tra infinite curve pericolose e interminabili saliscendi vertiginosi. Se parliamo della mia formazione, devo ammettere che sono e resto un randagio, un irregolare. Lo dico senza compiacimento: non mi sarebbe dispiaciuto fare un percorso di studio più lineare, laurearmi e trovare un lavoro tranquillo, ma sono sempre stato una capa di cazzo.VCredo che leggere sia l’attività che amo di più in assoluto, un gesto naturale che ormai si ripete in automatico ogni giorno da decenni. Quindi leggo come mangio, come parlo, come cammino, come sogno: ma non ho mai fatto calcoli, non ho mai pensato che mi stessi formando, che stessi divorando le pagine degli scrittori amati (e a volte odiati) solo per acquisire delle nozioni da rigiocarmi in un contesto lavorativo, per immagazzinare dati che potevano essermi utili. Poi la letteratura, un po’ a tradimento, di nascosto, ti forma comunque, ti sforma e deforma, ti manipola come le pare, ti shakera, ti riprogramma, ti trasforma: mi sorprende sempre scoprire in che modo una frase, un’idea scovata in un romanzo, un concetto qualsiasi che si è schiuso nel bel mezzo di un racconto, riemerga all’improvviso dalla mia traballante memoria di lettore quando la vita mi mette alla prova, quando mi ritrovo ad affrontare uno di quei famosi esami che non finiscono mai e non devo semplicemente rispondere a un professore che poi mi darà un voto, ma devo trovare dentro di me le risorse per sopravvivere agli imprevisti, agli eventi che sembrano studiati a tavolino da una qualche divinità sadica per annientare noi poveri mortali.
Ma negli ultimi anni ho preso coscienza di un fatto elementare che ho sempre sottovalutato: tutto ci forma, non esistono solo i libri. Bisogna saper allargare il ventaglio dei propri interessi, delle proprie passioni… La faccio breve: se c’è stata una formazione nella mia vita, mi piace pensare che non sia avvenuta solo attraverso le pagine lette. In questo senso credo che Gli stupidi e i furfanti incarni alla perfezione le conseguenze di questa bislacca teoria pedagogica: da ciò che ho scritto lì dentro, si capisce che la mia formazione è un frullato di esperienze disparate.
L’idea iniziale è semplicissima eppure spiazzante, persino per me che in teoria sarei il proprietario della testa su cui si è accesa la lampadina. Mio padre è morto all’età di 40 anni quando io ne avevo 8. Nel momento in cui ho compiuto anch’io 40 anni ho pensato: sarebbe interessante contare il numero di giorni vissuti da papà dalla data di nascita alla data di morte. Qualche mese dopo, quando ormai questa faccenda mi era del tutto passata di mente, nel febbraio del 2019, una bella mattina mi sono svegliato e quasi senza motivo, ho effettuato il calcolo: il risultato è 14759. Mio padre è rimasto in vita per 14759 giorni. Il passo successivo è stato stabilire quanti ne avevo vissuti io: ho scoperto con sorpresa che mi mancavano 13 giorni per diventare suo coetaneo. A quel punto non c’era scelta: è partito il conto alla rovescia e io non ho potuto fare altro che documentare ciò che succedeva in quei 13 giorni, fino al momento in cui sono ufficialmente diventato più vecchio di mio padre. Ovviamente ho un po’ romanzato, ho un po’ ingigantito dettagli in apparenza insignificanti, ho un po’ selezionato e limato nel tentativo di rispettare con devozione l’etica e l’estetica della scrittura, ho accolto episodi, aneddoti e riflessioni che il caso e le mie capacità mnemoniche lasciavano scaturire in maniera spontanea… Insomma ho fatto ciò che normalmente dovrebbe fare uno scrittore quando arriva una buona idea che però da sola non basta a fare un buon libro.
Per anni ho riscritto e rivissuto quei 14 giorni (dal giorno -13 al giorno 0), che sono diventati i 14 capitoli che compongono il libro. Non so più quante volte ho tagliato, aggiunto, corretto, rimontato fino a che non ho percepito la sensazione di aver scritto per davvero una cosa che somigliava a un libro.
A quel punto ho spedito questo sms a Sandro Veronesi: “Io ho finito un romanzo: che faccio?”
Lui ha risposto: “Mandamelo!”
E, dopo un’attesa non sempre vissuta in serenità, durata più di due anni, il mio libro è uscito per Baldini+Castoldi.
Conosco Sandro Veronesi da 22 anni. Era uno dei miei insegnanti quando frequentavo la Scuola Holden. A quei tempi per me era un idolo: non aveva ancora vinto il Premio Strega, ma aveva già pubblicato libri stupendi come Gli sfiorati, Venite venite B-52 e La forza del passato. Diventare prima suo allievo e poi (in qualche misura) suo amico, per me è stato un privilegio gigantesco, anche se negli anni, man mano che la sua fama cresceva, io avevo sempre più soggezione e pudore: ho cercato di infastidirlo il meno possibile, di non chiedergli favori, di non molestarlo con richieste pressanti.
Come vedi gioco a carte scoperte, non nascondo niente, qualcuno potrebbe considerarmi un raccomandato: me ne farò una ragione…
Comunque, Gli stupidi e i furfanti è piaciuto molto alla dottoressa Sgarbi che mi ha scritto parole bellissime e incoraggianti nel corso dei mesi in cui ‒ anche dopo la firma del contratto ‒ ho continuato a modificare il testo con un lavoro di riscrittura ossessivo, tormentando alcuni amici che mi hanno riletto più volte aiutandomi a vedere i difetti che da solo non riuscivo a vedere, e poi c’è stata la fase di editing con persone sensibili e preparatissime come Chiara Spaziani e Ilaria Pasca.
E adesso eccoci qua: tu che mi fai le tue tre domande innocenti e io che ti travolgo con il fiume in piena delle mie risposte…
Una sorta di diario privato ma anche un anomalo romanzo di formazione e affermazione. Partendo dalla strana storia del conto alla rovescia, vogliamo dettagliare, per i nostri lettori forti di Satisfiction, la rievocazione che viene fatta di una storia rimossa e chi sono i personaggi principali, i luoghi che la animano?
Devo confessarti che fin dal primo momento ho intuito che la trovata del conto alla rovescia fosse davvero potente dal punto di vista letterario: è chiaro che colpisce, che incuriosisce. In effetti tutte le volte che mi capita di raccontare a qualcuno di cosa parla il libro, la reazione è sempre di grande stupore… Non so, le persone fanno quella faccia alla Totò, sporgendo il mento in avanti, e si vede che muoiono dalla voglia di esclamare: “Oh perbacco!”
Però, se ci pensi, il conto alla rovescia è solo un contenitore, forse un contenitore ben congegnato, dal design accattivante, che ha una sua funzionalità: ma che cavolo ci metto dentro? È come lo stratagemma della pallina da baseball che passa di mano in mano tra i vari personaggi di Underworld: ingegnoso, ricco di potenzialità, ma se non sei DeLillo col cavolo che lo scrivi quel romanzo.
Per fortuna non c’è stato il tempo di tormentarmi con i dubbi e le incertezze, non c’è stato nemmeno il tempo di starmene lì a contemplare l’idea come se fosse la trovata più geniale della storia. Come ti dicevo prima, una volta che il conto alla rovescia è partito sono stato sommerso da una valanga di cose da dire, di episodi del passato che mi si ripresentavano non richiesti davanti agli occhi, di domande, soprattutto domande riguardanti tutto ciò che non sapevo su mio padre e che non ho voluto sapere per troppo tempo perché io quel lutto non l’ho mai veramente affrontato: tu il libro lo hai letto, e sai che uno dei fuochi principali è proprio il tentativo di conquistare le parole per attraversare e dire ciò che ho vigliaccamente evitato per più di trent’anni.
Incalzato dal conto alla rovescia, non mi sono chiesto cosa stavo facendo. L’ho fatto e basta.
Nello strepitoso saggio che David Foster Wallace ha scritto su Roger Federer, c’è riportato un pezzo dell’intervista in cui il gigante americano dialoga con il gigante svizzero: Wallace, stupito dalla velocità inconcepibile della pallina che viene sparata da un lato all’altro del campo da questi atleti sovrumani chiede a Federer se si rende conto di quanto va veloce la palla. Forse qui vale la pena riportare l’espressione tipicamente wallaciana con cui viene descritto il rumore della pallina in volo: “Se ti avvicini abbastanza a un campo di professionisti, senti che la palla in volo fa un rumore vero e proprio, una specie di sibilo liquido dato dalla combinazione di effetto e velocità”.
Un sibilo liquido… Come si fa a non amare alla follia questo scrittore?
Comunque, Federer gli dà una risposta fulminante sulla quale secondo me Wallace non ha ricamato abbastanza, anzi, l’ha relegata in una delle sue famigerate note a piè di pagina: il fuoriclasse del tennis gli dice che in effetti, quando gli capita di assistere da vicino alle partite degli altri, resta molto impressionato dalla velocità dei giocatori e della pallina, poi però aggiunge: “quando in campo ci sei tu è tutto diverso, capito, perché quello che vedi è la palla, non quanto va veloce…”
Spero che a nessuno venga il sospetto che io mi stia paragonando a questi mostri sacri, ma ciò che ho provato scrivendo è stato qualcosa di simile: vedevo la palla, non quanto va veloce, non me ne preoccupavo, non mi preoccupavo di quante fossero le palline che mi piovevano addosso da ogni direzione, non mi preoccupavo della presenza di un eventuale avversario… Ero così concentrato su ciò che scrivevo che mi stavo liberando pure di tutte le insicurezze e le paranoie che normalmente mi frenano.
Solo dopo, a lavoro ultimato, mi sono accorto che il mio libro era un oggetto stravagante, indefinibile, tutto spappolato, un’esplosione di digressioni, una collezione di sbandate. Solo dopo ho visto quanto andava veloce la palla… E ho ricominciato a lavorare e lavorare e lavorare fino allo sfinimento e alla nausea.
Essere l’autore di un libro come questo non mi dispiace per niente: come lettore tutte le volte che mi trovo in compagnia di un’opera che all’improvviso mi fa sollevare la testa dalle pagine e fa nascere la domanda “Ma che cacchio sto leggendo?”, mi sento felice. Io ci sto comodo nei libri che sfuggono alle definizioni, che accettano la sfida di ospitare le multiformi e imprevedibili variazioni che la vita escogita incessantemente: sia la natura sia gli artefatti umani ci sorprendono di continuo con architetture nuove, mai viste prima, al contempo aliene e terrestri, inimmaginabili eppure nostre fino al midollo.
Io mi sento a mio agio con questa roba, io che nella vita di tutti i giorni sono un cacasotto, come lettore sono un temerario: ma tu l’hai letto Canto del buio e della luce di Moresco? Ci rendiamo conto di quali meravigliosi oggetti volanti non identificati stanno sorvolando i nostri cieli in questi anni fortunati?
Sì, questi sono anni fortunati, fertili, forse irripetibili: io sono convinto che stiamo vivendo in un’epoca eccezionale, che proprio sotto i nostri nasi stiano spuntando tanti piccoli e grandi capolavori, che abbiamo il privilegio di essere contemporanei di grandissimi scrittori. Da una settimana, per esempio, sto leggendo un altro libro formidabile, geniale: Piressia del mio amico Jonny Costantino…
Quanto bisogna essere rincoglioniti e insensibili e miopi e incompetenti per stare a rimpiangere i presunti fasti del passato senza accorgersi degli smaglianti fasti del presente?
E quindi, in una certa misura ‒ forse, spero, chissà ‒ mi piacerebbe potermi considerare un temerario anche come scrittore.
Gli stupidi e i furfanti è un diario intimo, una lunghissima epistola (una lettera, e che cazzo: come mi è uscita la parola epistola?), un romanzo di formazione (o forse di deformazione), un mosaico di riflessioni dallo stampo quasi saggistico, un appassionato elenco di film, libri, serie tv, opere d’arte e canzoni ‒ soprattutto canzoni ‒ che hanno segnato la mia esistenza, forse è addirittura un testo che contiene, in maniera piuttosto fortuita, elementi generazionali che potrebbero far pensare a un personalissimo e sgangheratissimo tentativo di indagine sociologica sugli anni Ottanta del secolo scorso, ma è, prima di ogni altra cosa, la testimonianza della lotta disperata che ho ingaggiato con me stesso per organizzare in forma scritta l’indecifrabile nebulosa di sentimenti ed emozioni che si è formata quando avevo 8 anni, con il collasso gravitazionale causato dalla morte di mio padre. Quindi i personaggi e i luoghi che ho raccontato fanno parte da sempre della mia vita. Lì non c’è traccia di finzione: siamo a Pomigliano d’Arco e le persone ‒ soprattutto amici e parenti ‒, loro malgrado, sono state risucchiate dentro la voragine gravitazionale della narrazione che ha risucchiato anche me.
Come viene spiegato anche nel libro, tu non fai uso dei social e noi ci siamo conosciuti alla prima edizione del Flip a Pomigliano d’Arco. Non conoscevo la tua storia personale, e leggerla mi ha sorpreso notevolmente per i tanti tratti comuni nel mio percorso di elaborazione del lutto. Far sedimentare per tanti anni il dolore di uno strappo, una perdita ha prodotto un testo che è anche una commovente orazione funebre. Riuscire a coniugare alla letterarietà anche un’alta leggibilità non era semplice e per questo mi piacerebbe capire come hai lavorato sul testo dal punto di vista formale?
Mi ricordo bene del momento in cui ci siamo conosciuti, perché io e te abbiamo un amico in comune, Jacopo Masini, che è una delle persone a cui mi sento più legato dai tempi della Scuola Holden: quindi c’è stata da subito una certa simpatia tra di noi (come cantava Olmo, il personaggio interpretato da Fabio De Luigi a Mai dire Gol). Poi, nonostante io sia un po’ pagliaccio, resto una persona molto timida, riservata, e difficilmente avresti potuto spremermi informazioni che ti avrebbero fatto scoprire i tratti che accomunano le nostre vite…
Le reazioni delle persone che leggono Gli stupidi e i furfanti mi sorprendono molto: non sei la prima persona che scopre un po’ di sé tra le mie pagine, e dato che io pensavo di aver scritto un romanzo talmente personale da risultare quasi autistico, piombo giù dal pero ogni volta. C’è addirittura chi mi ha detto che gli è sembrato di leggere la propria vita, c’è chi mi conosce e dice che sembra di sentire la mia voce, c’è chi mi ha confidato che prima mi trovava antipatico e dopo aver letto il libro ha cambiato idea, c’è chi si è convinto che ho ricostruito minuziosamente l’atmosfera della provincia del Sud tra gli anni Settanta e gli anni Novanta…
Alla Holden c’era un’insegnante bravissima che si chiama Annalisa Garavaglia che ci ripeteva sempre un ammonimento: “Ricordatevi che una cosa è scrivere un racconto sulla noia e un’altra è scrivere un racconto noioso…”
Una preoccupazione che mi assillava mentre lavoravo a questo libro ‒ forse la mia paura principale ‒ riguardava proprio la differenza tra scrivere un testo sul lutto e scrivere un testo luttuoso. Non vorrei mai che qualcuno pensasse che ho scritto una storia piena di autocommiserazione, cupa, strappalacrime, morbosa, patetica, ricattatoria. Non c’è dubbio che Gli stupidi e i furfanti parli di un lutto, ma vorrei che fosse percepito come un libro tutt’altro che luttuoso. C’è il bellissimo blurb che ha scritto Sandro Veronesi in copertina che parla della “magia di un romanzo pieno di pieni entusiasmanti che descrivono lo strazio di un vuoto.” Io non nego la presenza del vuoto, ho imparato a conviverci con quel vuoto, credo di averlo affrontato e attraversato e tematizzato: però mi piace l’idea di averlo riempito con tutti i “pieni entusiasmanti” che ho accumulato vivendo e radunato scrivendo. L’altro parere illustre che ti posso riportare è quello di Antonio Moresco che è stato così gentile da presentare con me il libro a Milano: ha detto che nonostante parli di un lutto questo non è un romanzo triste, che alla fine, nonostante l’attraversamento di un dolore profondo, chi lo legge si sente meglio di come stava prima di cominciarlo.
Mi dai una grande gioia quando mi parli della compresenza di letterarietà e leggibilità. Soprattutto negli ultimi anni, ho sviluppato una profonda intolleranza nei confronti di tutto ciò che risulta cervellotico e inutilmente arzigogolato. C’è un fraintendimento di fondo, quasi un pregiudizio da dilettanti, secondo il quale un libro ben scritto è un libro scritto in maniera complicata. Io amo molti scrittori considerati difficili. Ho letto Joyce, Faulkner, Pynchon, Alfred Döblin, tanti sudamericani matti, i postmoderni, altri autori in attività che tentano esperimenti arditi, che trovo affascinanti anche quando non capisco quasi niente di ciò che scrivono, arrivo addirittura a vantarmi della mia apertura mentale, come ti dicevo sono un lettore temerario, non mi spavento di fronte a niente. Però questi grandi scrittori non complicano mai le cose perché sono dei sadici che si divertono a torturare i lettori: scrivono di cose complesse, spesso ai limiti dell’indicibile, e sono costretti a elaborare lingue e strutture narrative altrettanto complesse, per essere all’altezza delle proprie ambizioni. Quando invece mi accorgo di essere di fronte a un cialtrone che fabbrica soltanto supercazzole in serie… Lasciamo perdere…
Per tornare al mio libro: io avevo un’esigenza di chiarezza perché molte cose le stavo chiarendo a me stesso mentre le scrivevo, non potevo barare, ero io il primo a doverle comprendere, perché le stavo andando ad arpionare esplorando i fondali più oscuri della mia sensibilità e sarei stato un coglione imperdonabile se riportandole alla luce le avessi impacchettate con la carta da regalo di uno stile artefatto, perché avevo 8 anni quando è morto papà e dovevo restituire la parola, la voce, a quel bambino muto, senza sovrapporre troppi costrutti intellettuali, perché esordire così tardi, a 45 anni, mi dà per lo meno la saggezza di capire che non ho niente da dimostrare a nessuno, che scrivere non è un’esibizione circense, perché un’orazione funebre merita il candore primordiale di chi senza meriti né colpe sopravvive, di chi è stato condannato a restare, perché una morte può innescare solo reazioni elementari di creature inermi che si sentono abbandonate per sempre… Ho scelto un tono colloquiale perché fin da subito il testo è stato concepito come un’epistola (non ci posso credere, l’ho fatto di nuovo!), perché avevo bisogno di inventarmi un interlocutore a cui raccontare tutto senza fronzoli, senza maschere, senza trucchetti. Poi, per carità, io ho un’ossessione insana per l’estetica della frase, per il suono delle parole. Rileggo di continuo ad alta voce ogni rigo scritto finché non sento una musica che mi appaga, finché l’armonia della pagina non corrisponde all’armonia che riecheggia da qualche parte in profondità dentro di me. E ho un’ossessione insana per il dettaglio collocato nel posto giusto al momento giusto, come una rasoiata, come un’abile incisione con il bisturi. Ti faccio un esempio, giusto per capirci, poi la smetto di tormentare te e i lettori di Satisfiction: ho appena finito Il ramo spezzato, bellissimo memoir scritto dalla moglie di David Foster Wallace, Karen Green, che parla di come ha affrontato i mesi successivi al suicidio del marito. Senti qua: “Tengo il tuo deodorante, che uso con grande parsimonia. Mi ci faccio un baffo unto sotto il naso prima di infilarmi a letto”.
Credo che sia impossibile non avvertire una gigantesca ondata di empatia nei confronti di questa donna che prima di mettersi a dormire sente il bisogno di riafferrare il ricordo del suo amore perduto, attraverso la tenue scia di un odore, che prova a ridargli vita tirando su con le narici, che sniffa quel poco che resta del suo amato marito morto come una droga di cui non saprà mai fare a meno… Ma in che modo ha scritto tutto ciò? Quali scelte stilistiche ha adottato? Si è affidata a un dettaglio preciso, a un dettaglio semplicissimo e toccante: “un baffo unto sotto il naso”.
Non ti sembra di vederlo quel baffo unto? Non ti sembra di avvertire un vago solletico appiccicoso sul labbro superiore?
Se vuoi sapere cosa significa scrivere bene per me, ecco l’unica risposta che ti so dare: impadronirsi della capacità di tracciare un baffo unto sotto il naso prima di infilarsi a letto.
Buona Lettura di ” Gli stupidi e i furfanti” di Salvatore Toscano
Antonello