“Ricordo esattamente il luogo in cui mi trovavo quando scrissi quella canzone. Ero nella mia testa.”
Non è casuale la scelta di questa frase sulla quarta di copertina di “Thank you (Falettinme Be Mice Elf Agin)”, la roboante biografia che Sly Stone ha scritto con Ben Greenman, pubblicata in Italia da Jimenez Edizioni (pp. 288, € 22) e tradotta da Alessandro Besselva Averame: se infatti nel corso della lunga parabola artistica e umana di una delle figure più affascinanti che il mondo delle sette noti ricordi una costante c’è stata, è stata proprio l’urgenza, mai placata, di dover dare vita sempre, comunque e dovunque a quello che gli frullava nella mente. E per capire come non si tratti di una banalità, è necessario tuffarsi senza pregiudizi nelle pagine di questo memoir, in cui all’inarrestabile profluvio di ricordi, aneddoti e situazioni si lega indissolubilmente quello che potremmo definire come una sorta di “moto perpetuo”, fisico e psicologico, che ha contrassegnato un’esistenza vissuta con il piede perennemente pigiato sull’acceleratore.
Nato in una famiglia in cui, letteralmente, la musica era una sorta di componente aggiunto, un vero e proprio family affair, Sylvester Stewart (questo il suo vero nome) fin da ragazzino gli ha completamente affidato se stesso, compiendo un rapido quanto variegato apprendistato tra le mura domestiche, prima di affinare il suo orecchio nelle vesti di dj e lanciarsi di poi in una carriera che dura da oltre sessant’anni e che lo vede amatissimo e riconosciutissimo mentore di una pletora difficilmente circoscrivibile di compositori ed esecutori di vario genere. Perché se è vero che durante tutto questo lungo arco temporale la stella della sua creatura per eccellenza, i Family Stone, non sempre sia riuscita a brillare al massimo del suo fulgore, è altresì indubitabile come abbia rappresentato una stella polare da dover avere sotto gli occhi per chi si è dedicato al funk, alla dance, a certo rock o a certi esperimenti di “fusione”.
Ma, ovviamente, non solo di musica si parla in questo libro, dove viene narrata anche la vita di un uomo che tanto assomiglia al protagonista di un romanzo avventuroso, prigioniero di appetiti feroci e vittima di epiche cadute, nonché di un travagliato rapporto con gli eccessi che, nel suo caso specifico, si è sostanziato in una tossicodipendenza dalla durata temporale monstre. Un aspetto questo sul quale, tuttavia, durante la lettura non si riscontra mai un atteggiamento compiaciuto e/o di pentita condanna, assumendo perciò uno status molto più umano rispetto a quello che di solito avviene in tante biografie di musicisti, dove l’inferno dell’abuso di droga funge magari da “volano spettacolarizzante” o, e forse è anche peggio, da non richiesto escamotage per abbandonarsi a stancanti “prediche” moraleggianti. Un risultato che ci rimanda ancora una volta alla centralità assoluta che il processo creativo e l’amore per le sette note hanno sempre esercitato nella quotidianità di Sly Stone, che in questo “Thank you” non gioca mai al “sopravvissuto” di facile presa, ma consegna al lettore il ritratto di una personalità sempre vitale, sempre in movimento, che l’inesorabile avanzare del tempo non è riuscito a snaturare e al quale, soprattutto, non è riuscito a rubare la vocazione e la consapevolezza dell’hic et nunc.
“Non voglio entrare nella vita degli altri e non voglio che gli altri entrino nella mia. Voglio solo suonare le mie canzoni. Lo farei anche gratis.
Se adesso dovesse uscire un nuovo album di Sly, che titolo avrebbe?
Adesso…
Sì, adesso. Che titolo avrebbe?
Right now! Adesso!”
Amen.
Domenico Paris