“Il pensiero affettivo” di Ginevra Bompiani e Sarantis Thanopulos (Feltrinelli 2024, pp. 128 € 17.00) abbraccia il suo attraente svolgimento attraverso la brillante e seducente conversazione epistolare, ravviva l’incontro tra due intelligenze ispirate dal mondo della scrittura e della psicoanalisi, amplifica il proposito complice della corrispondenza emotiva. I due autori percorrono, nell’elemento dinamico del dialogo ermeneutico, il loro cammino intimo di ricerca e di consapevolezza, nell’esercizio espressivo e accurato delle idee. Osservano, con meditata e profonda valutazione, l’ispirazione di una radice cognitiva e gnoseologica, consolidano il proprio discorso differente ed equivalente, influenzato dall’esperienza, ricostruiscono l’inclinazione istintiva dell’intelletto e dell’affezione, intonano il linguaggio nell’autonomia culturale sollevandolo dal vincolo della soggezione degli inganni mentali. L’indipendenza colta della comunicazione nutre la devozione delle intese, segue il profilo del presentimento, affianca l’attenzione positiva all’etimologia sensibile dell’intuizione esistenziale, dipana il colloquio speculativo intorno all’indagine di ogni attività del giudizio e di ogni raffigurazione della civiltà. Ginevra Bompiani e Sarantis Thanopulos, nel sostegno ben accordato con l’impiego psichico dei principi logici e delle spinte irrazionali, esplorano le scoperte concettuali e rispondono alle domande cruciali che plasmano l’universo e la sua dottrina rivelativa. Affrontano, all’interno di un contesto confidenziale e propizio, l’interconnessione dei legami umani, la misura del tempo nella volontà di educare la natura del sé, la relazione tra la suggestione delle opinioni e l’oggettività del distacco, intrecciano l’apprendimento della realtà nell’evidenza degli interrogativi.
Il libro riconduce la sua sfida lucida e perspicace nella composizione poetica del pensiero e dell’affetto, offre spunti di riflessioni molto interessanti intorno al movimento trasformativo dei sentimenti, delinea la prospettiva di un immaginario in cui l’umanità oscilla tra illusione e delusione, nella memoria del desiderio, comprende la condizione interpretativa tra fenomeno ed essenza. La scrittrice e lo psicanalista sostengono lo spessore ontologico delle parole, la ragione reciproca delle affermazioni, la trasparenza di uno sguardo che penetra la realizzazione di ogni attesa umana verso la saggezza, l’orientamento del sapere, la concezione degli atteggiamenti morali. Illustrano l’entità della maturità con la dimensione temporale delle tensioni, concordano le divergenze nella disciplina complementare dei ragionamenti, conoscono la potenzialità dell’indole contemplativa come matrice originaria di senso, comprendono il sentire dell’individuo e la centralità delle aspirazioni nelle vicende umane, riconoscono la scoperta dolorosa di una identità scissa tra resistenza e fragilità.
Il libro conferma la ricchezza di una lettura che va al di là delle definizioni scritte, rinnova il carattere sperimentale del dubbio, oltre la fenomenologia del presente. “Il pensiero affettivo” adagia la cura spirituale tra cervello e anima, avvicina la percettibilità alla capacità di cogliere il destino delle cose, attraversare l’inquietudine, valutare la verità nell’indagine dei meccanismi reconditi della psiche. Il pensiero affettivo e l’illusione sono la metafora vulnerabile e confortevole della stessa sapienza, oltrepassano la deformazione dell’inautentico per identificare l’orizzonte della comunità, nell’equilibrio della forma primaria e compiuta dell’autenticità.
Rita Bompadre
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Caro Saradis,
quando dici “Tuttavia mi è sempre più chiaro che il principio è il pensiero. Non mi riferisco a un’archè temporale, a un prima del pensiero e un dopo dell’affetto, ma al fatto che la sensazione sensuale, che è all’origine di entrambi, perché diventi affetto, diventi qualità psichica”… sono d’accordo con te.
Lo sono meno invece quando dici “La differenza di prospettiva che tu proponi ha, in gran parte almeno, a che fare con il fatto che tu ti riferisci al campo della ‘poesia’, mentre io ho rivolto, finora, in modo privilegiato la mia attenzione al ‘fondo’ da cui essa origina”.
E questo perché non credo che ci sia una vera differenza tra “fondo” e “poesia”. Quanto alla parola “algoritmo”, che fai scendere in campo, non sono sicura che abbia qui il suo posto.
Prendiamo la definizione che ne dà il dizionario: l’algoritmo è qualsiasi schema o procedimento sistematico di calcolo; una strategia atta alla risoluzione di un problema. E deve necessariamente essere: finito, deterministico, non ambiguo,
generale.
La soluzione di un problema si pone sia all’affetto che alla ragione; o, per dar loro nomi meno approssimativi, sia alle passioni che al raziocinio. Entrambi, passione e raziocinio, hanno problemi da risolvere. L’algoritmo risolve i problemi
che gli pone il raziocinio. Qual è il rapporto fra calcolo e passione? Direi un rapporto antitetico. Il calcolo è il fine del raziocinio e la fine della passione: fa scivolare la soluzione affettiva in una soluzione razionale. L’affetto perde la partita quando la ragione la vince.
Nel passo che tu citi, Merleau-Ponty parla di parola “obliqua, brancolante…”. E questa è proprio la definizione che darei della parola poetica, originaria. Perché la parola poetica è la parola originaria. Pesca in quel “fondo” a cui rivolgi la tua attenzione. All’opposto dell’algoritmo, forma adulta del linguaggio.
Quella che descrive Merleau-Ponty, la parola alla sua origine, o scaturigine, è appunto la parola poetica. Non saprei definirla altrimenti. E se la poesia è l’infanzia della parola e l’algoritmo è la forma adulta del linguaggio, mentre la prima è necessaria (com’è necessaria l’infanzia), la seconda non è nemmeno detto che venga mai raggiunta. E poiché fin dal principio, in questa nostra conversazione, noi parliamo dell’origine della parola e del pensiero, non abbiamo a che fare
con l’algoritmo. E magari non avremo mai a che farci (io per esempio!). La poesia non è un “modo” del linguaggio, ma il modo che abbiamo di afferrarne l’origine.
Nelle parole di Merleau-Ponty, vedo l’algoritmo come l ’opposto della sorpresa (cioè dell’ospite), e del sogno (cioè dell’atteso). In altre parole, mi pare proprio l’esempio stesso dell’illusione della ragione: risolve i problemi nel modo previsto da chi li ha posti. Pone, in un certo senso, la soluzione prima del problema.
Per tornare alla tua metafora della neve, forse la neve è proprio l’algoritmo: copre la variazione infinita della terra col suo manto uniforme. Quando la temperatura sale sopra i 4 gradi, la neve si scioglie, e con lei ciò che nasconde la terra, e ogni erba comincia a germogliare.
Ma per tornare all’illusione, in un certo senso è ripetizione: la ripetizione dell’inizio, di ogni inizio, il continuo essere iniziale dell’esperienza, compresa quella del linguaggio. Vibrazione, certo: quella che non pulsa nell’algoritmo.