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Maria Teresa Calabrese. Un ultimo presente

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È la Basilicata degli stivaloni infilzati nella dura terra, dei paesini rurali, del grano a perdita d’occhio. Ma potrebbero anche essere le Great Plains del Midwest, North Dakota, Nebraska, Iowa. Nomi fascinosi, certo, però meno affascinanti dello sfondo scelto per questa storia: meglio la cruda Lucania e meglio ancora Villa Triste, la casa in campagna in cui tutto comincia – e anche finisce.

È “Un ultimo presente” (Capponi Editore, 2024) di Maria Teresa Calabrese, scrittrice “quasi” esordiente – la sua prima prova è un self-publishing del 2021 – nativa di Venosa, marsicana d’adozione, traduttrice, book blogger competente (precisazione tutt’altro che superflua) sotto il nome de @la_librista. Un romanzo che parte e torna a casa, come detto, senza rinunciare a quell’afflato internazionale che proprio in provincia, e in special modo a Sud, spesso rappresenta il Grande Sogno e che in questo caso è Londra, meta eletta di una generazione ch’è diventata grande a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila. È quella dell’autrice, ed è la stessa di Etta, soprattutto, la protagonista narrata e narrante di questa storia, “la contadinotta con la ricrescita e una sveglia a forma di gallina sul comodino” che un bel giorno si ritrova con l’auto in panne, in aperta campagna, mentre sta accompagnando suo figlio a scuola. E d’improvviso, ricalcando ancora il testo, diventa “l’oggetto delle attenzioni di un gentiluomo che sembra uscito da un episodio di Downtown Abbey”.

Comincia così, con la ragazza madre (ormai donna, in realtà) soccorsa dal signor Rowland, l’inglese sbucato dal nulla che ha rilevato e rimesso a nuovo la vecchia abitazione di famiglia – Villa Triste, appunto –, quella in cui si organizzavano le feste del liceo, tra cover band, canne e brindisi alla “sciammerica” – che “non è solo quella cosa che avete tra le gambe, è la terra dei sogni”. C’è quel mondo, quello del “nuovo cd dei Dream Theater”, di Gessica Rizzo, di “Nothing Else Matters” che si può eseguire solo in MI minore, “altrimenti sacrilegio”. Degli amori impossibili e segreti tra migliori amiche e peggiori amici, a sognare un futuro che, parafrasando Paul Valéry, non sarà più quello di una volta, rivelandosi anzi più duro del previsto, ma non per questo privo di sorprese.

È la vita di Etta, in buona sostanza – “Nice… Come Etta James?”, “In realtà come Antonietta, mia nonna”. Etta ritornata da Roma in Lucania per lavorare nell’azienda agricola di famiglia, con buona pace degli studi universitari, a crescere Fabio, a tentare con poca convinzione di non sfiorire. Etta che incontra Matthew – il signor Rowland – guance rosee e italiano “fluente”, ex docente appassionato della lingua di Dante che comincia a bazzicarle intorno, la scusa del cibo, le lezioni d’inglese. Manca il terzo vertice però, perché questa storia s’impianta sul classico triangolo amoroso, sebbene atipico, temporalmente sfasato, tutt’altro che banale, tutt’altro che classico. Sarebbe una papabile descrizione del romanzo, di fatto è il ritratto di Agata: è lei quel vertice – parola non casuale – l’amica bellissima e dal cuore duro che dopo il diploma va via di casa, senza salutare, senza avvisare, scontentando tutti, amici e parenti – la scusa di un interrail, altra chimera generazionale.

Artista mancata, egoista risoluta, dannata per scelta e incompiuta per destino, cameriera desiderata nei pub inglesi dove nascono le grandi band e poi “madonna pop” a cavallo nella brughiera britannica – la Guinness che le ricorda le olive di casa, “quelle nere, fatte al forno”. Agata compare e dispare sulla scena ora attraverso gli occhi di Etta – che in segreto amava il suo Ennio – ora attraverso una narrazione in terza persona che la racconta al passato, ne tratteggia epifanie e perdizioni, dalla casa padronale con cameriera in cui nasce fino al buco asfittico nel quale si ritrova, italiana a Londra col pallino dell’arte ma forse, con più dannazione che talento.

Maria Teresa Calabrese agisce sul lettore con una lingua ironica, intelligente, talora nascondendosi dietro le gustose insicurezze di Etta, talaltra muovendo la storia tra passato e presente, il piglio sicuro di chi sa come si narra e un finale che sa di buono, di casa, di Sud, del quale si avverte il profumo a distanza. Perché forse è vero e Agata, laggiù, nell’abisso, ci aveva visto bene: “tutto il mondo era un paese in fiera, una collezione di lattine ammaccate, di pesci rossi nei sacchetti gelo, di giostre malconce e arrugginite che continuavano a girare, ogni anno più vecchie, sotto una musica tremula e scordata”.

Alessandro Galano

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