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Perché Cormac McCarthy non è nato in Italia

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Perché in Italia non abbiamo avuto scrittori come Cormac McCarthy, Stephen King, William Burroughs, Toni Morrison, Don Delillo, Thomas Pynchon…? Le ragioni sono diverse. Storiche, prima di tutto. Poi d’identità, per quanto storia e identità vadano a braccetto. L’America è un paese relativamente giovane, ciononostante è pervenuto al romanzo prima di noi, che per oltre un millennio ci siamo allenati più a poetare che a narrare… “santi, navigatori e poeti”. L’America è un paese segnato da mille conflitti, non solo razziali, e da contraddizioni talvolta difficili da spiegare (la letteratura si nutre di contrasti, il miglior propellente dei romanzi è lo scontro, il dissidio); fin dalle sue origini terra di conquista e di sogni da inseguire: realizzati (Singer, Updike, Bellow, Roth, Bret Easton Ellis…), miseramente falliti (Richard Yates, Raymond Carver, il Philipp Meyer di Ruggine Americana…). A sua volta il sogno postula il viaggio – sogno e viaggio contano tantissimo in questo discorso – da Huckleberry Finn di Twain e Furore di Steinbeck a On the road di Kerouac, senza contare l’affollatissima epica Western di autori come Guthrie, McMurtry, McCarthy, di outsider della non fiction (Jessica Bruder con Nomadland) e dell’autofiction (Eddy L. Harris con Mississippi Solo, William Least Heat-Moon con Strade Blu…), possiamo dire che il romanzo americano è un viaggio senza fine, un perenne trasloco. Be mine, il quinto Bascombe di Richard Ford racconta la traversata in camper di un padre e di suo figlio disabile. L’ultimo regalo di Frank a Paul è un viaggio. Il viaggio è anche speranza in un nuovo approdo, voglia di ricominciare.

L’America si è forgiata attraverso continue ondate migratorie, dall’esterno e dal suo interno; alcune sono già state tradotte nei libri (Europa e Africa), altre lo saranno nel breve periodo (Asia e Oceania). È un paese di grandi dimensioni. Gli spazi sconfinati, quelli abulici come il piatto Midwest e gli Appalchi, ma anche gli altri più ostili dal punto di vista climatico, incidono non poco sui processi creativi e sulla scrittura, le conferiscono cioè un respiro ampio, una più vasta universalità, autenticità non per forza subordinate al piccolo rituale. Esistono poi delle ragioni tecniche legate alla forma della comunicazione. I diversi linguaggi del cinema, della tv, del fumetto, della musica (Il rap spiegato ai bianchi di David Foster Wallace e Marck Costello…), unitamente al mito della forza, si pensi ad esempio ai Supereroi della Marvel o a certi personaggi del cinema di Ford o Tarantino, e della giustizia fai da te attraverso l’uso delle armi, hanno definitivamente conquistato la letteratura americana, amalgamandosi perfettamente tra loro (Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon e la serie di Hap e Leonard di Joe Lansdale sono tra i migliori esempi di come il fumetto abbia plasmato a sua immagine la letteratura). In italia questo processo non si è compiuto, forse per una certa diffidenza verso forme d’arte giudicate colpevolmente minori, forse per una ossequiosa dipendenza dalla “lingua letteraria” che è dura a morire. Un altro aspetto essenziale della china presa dalla letteratura d’oltreoceano nel corso degli anni, molto meno dall’avvento della Woke Culture, è la totale assenza di condizionamenti politici, di scuole, e conventicole. Ben altra storia rispetto per esempio al potere di vita e di morte che ebbe il gruppo Einaudi negli anni di Ginzburg e compagni, ai veti e ai filtri imposti a testi e ad autori non graditi per motivi squisitamente ideologici. Infine il coraggio o l’incoscienza di sperimentare nuove forme di racconto, che in America è incoraggiato fin da subito in molti corsi di scrittura, mentre in Italia viene puntualmente soffocato da editori poco visionari, più attenti ai bilanci che al valore reale dei manoscritti e alla loro capacità di sfidare le mode.  

Angelo Cennamo

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