Se definizione vogliamo dare alla seconda prova narrativa di Cinzia Dezi, allora Qui non siamo al liceo classico è un romanzo punk… di ambientazione scolastica.
Punk come “attitudine” inserita nei modi della scrittura, a tratti decisamente, entusiasticamente deragliante. Ma anche per quell’immergere la narrazione non tanto nell’universo scolastico (e lo è, fino alle ossa), bensì nell’humus dove quest’ultimo cresce.
Dezi che fa l’insegnante, proprio come fu per il primo Domenico Starnone (quello di ex Cattedra, di Fuori registro e Solo se interrogato), non si trincera dietro nessuna, più o meno valida, distanza dal soggetto che narra.
Come e più di Starnone cerca di evitare il semplice aneddoto, la semplice carrellata di eventi, per dare una maggiore autenticità al personaggio di cui racconta, anche se l’impronta diaristica, il percorso cronologico – che dura un anno, cioè quanto la supplenza, ovvero il pretesto narrativo – non permettono di superare completamente questa trappola.
Ma il soggetto, la scuola con i suoi collegati, è di per sé vitalissimo e resta centro della storia, metafora evidente quanto impossibile da eludere.
Sarà perché probabilmente pesca dalla biografia dell’autrice, sarà perché queste storie le si conosce tutti per varie ragioni, non ultima quella che sono state già raccontate (ma da altri punti di vista e con altro tono), sarà perché parlare di alunni e professori, delle loro problematiche e delle loro nevrosi, è un pozzo senza fondo di spunti letterari…
Quindi, l’ambiente entro cui si muovono i personaggi è quello della scuola, descritto come aspro, ostile, quanto anche pieno di possibilità spesso frustrate dall’ambiguità con cui si comportano i possibili antagonisti, che sono i colleghi al pari degli allievi.
Ma la scuola, per Dezi, appare più un ambiente fisico che mentale, psicologico. Anche se di materiale psichiatrico nelle pagine di Qui non siamo al liceo classico se ne trova parecchio.
Comunque, ogni volta che tutto sembra assumere un ruolo ecco che il contesto va fuori fuoco, al pari di quanto gli fa da sfondo. Come se la scuola fosse un elemento sfuggente, forse imprendibile, di certo mutevole, fluido.
Così dovrebbe essere per i personaggi. Invece, rispetto alle ragioni e alle istanze di cui sono portatori, i loro caratteri (tolto il fumo dietro cui si nascondono) appaiono più netti. Anche se spesso tagliati grezzamente (e qui torna l’attitudine punk), senza possibilità di approfondimenti ulteriori a vivificarli, riescono a dare senso a un percorso dentro lo spazio scolastico.
L’individuo è perciò sempre al centro di questo “spettacolo”: il luogo e la comunità a lui relativa vengono indicati, in qualche modo li si offre come citazione. Di più, li si offre giustamente come assodati. Come fossero la tossina che contamina ogni cosa: si conosce, e tutti sanno che c’è ben poco da fare.
A parte questo, lo stile narrativo messo su pagina da Dezi è quanto incuriosisce maggiormente.
Come detto all’inizio, appare di pura attitudine punk: “suona” spesso stridente agli occhi del lettore. Al contrario di quelli che si intuiscono essere i padri putativi della scrittura di questa autrice romagnola. Quindi niente prosa à la Starnone, ma nemmeno la compulsione al parlato sempre presente in Paolo Nori, o le digressioni di Piccolo, o il “romanticismo” del mai dimenticato Sandro Onofri.
La scrittura che occupa e dilaga per questo veloce romanzo, è sempre sul filo del deragliamento. È riottosa a “comportarsi bene”, ironica, orgogliosamente grezza, con un rimando quasi certo al Maestro di Vigevano di mastronardiana memoria.
Si offre però al lettore modernamente. Come la musica di un gruppo punk evoluto, per continuare con la similitudine: comunque più Usker Dü che Green Day.
Potremmo definirlo una esperienza emotiva – vissuta sul campo – filtrata attraverso un pensiero correttamente narrativo, cui si lascia margini di libero sfogo.
Detto tutto questo, in Qui non siamo al liceo classico si alternano almeno due posizioni, quelle relative alla voce narrante di Sandrina Stradellacci e quella relativa alla protagonista principale, la professoressa Aurelia Alessandrini, docente non più giovane di Filosofia, ancora precaria, comandata a insegnare solo Storia (materia di cui non sa nulla) per un anno accademico nel Liceo-sperduto-in-mezzo-ai-campi.
Due voci che funzionano forse troppo come una unica macchina (sola, possibile pecca del romanzo) dove i cambi di tempo non sono vere sospensioni della storia, ma volontà autoriale di mettere fuori asse il lettore, di non tranquilizzarlo. Anche nei momenti in cui gli si dice “va tutto bene”, anche quando il territorio in cui i personaggi agiscono è dato come geograficamente e umanamente mappato nella sua essenzialità. Vago, anche, ma spazio dove tutti i personaggi agiscono in un continuo essere collegati/scollegati dalla realtà.
Ambientato in epoca pandemica (anno scolastico 2020/2021), Qui non siamo al liceo classico racconta insieme alla difficoltà dell’insegnare, la difficoltà di entrare in empatia con gli allievi, di conoscerli veramente.
Questo al di là delle frizioni tra colleghi docenti, perfettamente stigmatizzate nelle apparizioni di un personaggio secondario – tratteggiato in modo secco quanto senza sbavature – qual è il prof. Riporto.
Diviso in sessanta brevi capitoli (più l’avvertenza iniziale e l’epilogo) la seconda prova narrativa di Cinzia Dezi, non è solo il racconto di un anno scolastico “diverso”, ma l’analisi parziale, opinabile quanto perfetta dell’universo umano, della sua incoercibile e incorreggibile follia.
Sergio Rotino
Recensione al libro Qui non siamo al liceo classico, di Cinzia Dezi, Booktribu 2023, pagg. 147 € 19.00