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René Crevel. La morte difficile

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Qualcuno disse che era così bello che non si poteva guardare.

Un angelo e un pugile. Alle spalle una tragedia terribile e personale.

Il padre si era impiccato. Tradita molte volte, sua madre lo odiava e, per vendicarsi, pretese che il ragazzo vedesse il corpo sospeso. Ottenne il contrario, sua madre, e quel fantasma perseguitò René per il resto della vita.

Diventò poeta, Crevel, un poeta surrealista, ma non come Vian, come Dalì, come Jarry. Crevel rimase sempre lontano da certi isterismi tipici del genere, non fu mai eccessivo nelle sue visioni. Le pagine de La morte difficile sono più vicine a un certo Modernismo, più simili a quelle de La signora Dalloway. Come la Woolf, Crevel procede per lunghi monologhi che si avvitano, si attorcigliano. Il lettore viene trasportato dentro un fiume di pensieri dove si passa da un personaggio all’altro. Le pagine diventano come il finestrino di una carrozza e, lentamente, osserviamo il paesaggio mentale di Pierre, di Diane, delle loro madri tanto ingombranti.

La storia è straordinariamente semplice. È quasi tutta in interni, un salotto, una stanza. La signora Dumont-Dufour, madre di Pierre, si lamenta con la signora Blok, che è la madre di Diane. Le donne si raccontano. Il marito della signora Dumont-Dufour è al manicomio, da anni scrive sempre la stessa lettera a madame de Pompadour. Sono missive brevi e sempre identiche.

Il marito della signora Blok, invece, si è ucciso. Durante un ricevimento, quando tutti lo attendono, la servitù lo trova impiccato nel suo studio.

Pierre e Diane sono amici, forse più che solo amici, sono sodali. Pierre teme che un giorno impazzirà come suo padre, Diane che si ucciderà. Si amano, a loro modo e, di certo Diane ama Pierre che, però, ama anche Bruggle, o forse soltanto lui e, di certo, lo desidera, lo cerca, in modo più affamato.

La vera storia de La morte difficile, tutto il suo fascino, sta nel linguaggio, nello stile di Crevel. Complesso è stato il lavoro di traduzione di Gianni Forte. Un lavoro di evocazione, il suo. Non a caso, in un articolo recente, Forte dice che tradurre Crevel è stato come accendere un cero in una stanza buia. L’immagine, quanto mai calzante, illustra il tentativo, riuscito, di rievocare lo spirito del poeta, i suoi tormenti. Se il lavoro di traduzione è sempre una ri-scrizione, quando il traduttore riporta in vita un autore morto, la sua funzione è quanto mai simile a quella del medium che si pone, non solo tra due mondi culturali, ma è costretto a trascinare di nuovo in vita uno spirito che riposava dimenticato.

Cercando di documentarmi per questo articolo, ho trovato una foto di Crevel con i suoi compagni surrealisti. Come una squadra di calcio, la foto ritrae una prima fila di celebri artisti, da Dalì a Man Ray, seduti e, alle loro spalle, quasi in piedi, gli altri. Crevel è all’estrema sinistra di chi guarda, entusiasta di essere tra loro eppure si ha la sensazione che sia nel quadro solo per un attimo, come se stesse per saltare. Era molto diverso da tutti loro e non lo accettarono mai del tutto. Sincero fino all’autolesionismo, Crevel non nascose mai la sua omosessualità. Agli altri, ai “geni”, questo suo aspetto non piaceva e forse, nemmeno che fosse così radicalmente comunista, che sentisse davvero sulla sua pelle la sofferenza altrui.

Si raccontò attraverso i suoi personaggi e, come un padre giusto, distribuì equamente i suoi dolori. Non solo a Pierre, che gli assomigliava, ma anche a Diane, a Bruggle.

La morte difficile è il suo libro più grande, quello in cui si raccontò con il torace del tutto aperto. Crevel, che si uccise come aveva raccontato, facendo di sé stesso un personaggio, lasciò un biglietto, molto stringato: Vi prego, crematemi. Disgusto.

È molto bello che l’editore Ventanas abbia deciso di riportarlo in libreria perché, leggendo, ci sembrerà di avere la sua testa in grembo e ogni pagina sfogliata sarà una carezza che allevia il dolore e salva la vita.

Pierangelo Consoli

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La morte difficile, René Crevel, Ventanas 2024, Pp. 203, Euro 16

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