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Lo stile è la musica della ferita. Intervista a Jonny Costantino

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Jonny Costantino è cineasta e scrittore. Nel 2000 si laurea in Giurisprudenza con tesi in Criminologia (Il grande criminale tra criminologia e cinema) e subito avvia una collaborazione biennale con Vittorio De Seta (il regista di Banditi a Orgosolo). Nel 2005 fonda con Fabio Badolato la BaCo Productions e nel 2019 con Rita Deiola la Salamander Giant, entità produttive entrambe attive. Insegna Regia presso la Scuola d’Arte Cinematografica Florestano Vancini di Ferrara (da ottobre 2024 Blow-up Academy) di cui è vicedirettore artistico. Per “Bookolica. Il festival dei lettori creativi”, che si svolge in Sardegna a settembre, è curatore della sezione letteraria ‘Azzardo e visione’. Tra i libri: Piressia (2024), Cormac Blood Dance (2023), Giovanni Blanco (2023), Ultraporno (2021), La mano bruciata. Scrittori, pittori, elezioni (2021)Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista (2020), Nella grande sconfitta c’è la grande umanità (con Michael Fitzgerald, 2020), Mal di fuoco (2016), Volti a fronte (con Domenico Brancale, 2013)Tra i film: Just Play and Never Stop (in post-produzione), Sbundo (2020-24), Carnale Carnale (2023), Dallarte (2023), La lucina (2018), Il firmamento (2013), Beira Mar (2010), Le Corbusier in Calabria (2009), Jazz Confusion (2006)Tra le riviste: è stato redattore di “Cineforum” e caporedattore di “Carte di Cinema”; nel 2009 ha fondato la rivista “Rifrazioni. Dal cinema all’oltre” e nel 2010 “Rivista”; attualmente è redattore del “Primo amore” e collabora con “Antinomie”.

Mario Schiavone

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Nel tuo ultimo libro, Piressia (Wojtek Edizioni, 2024), il tuo narratore – con uno sguardo calibrato e puntuale – affronta un viaggio spericolato, durante il quale indaga ora l’animo umano ora il vissuto di tre geniali artisti (Emily Dickinson, Billie Holiday, Franz Kafka), ora il tessuto del sistema reale delle cose. Come nasce questo tuo pensare, scrivere e vivere con un piglio tanto profondo quanto rivoluzionario la tua capacità di espressione artistica?

Urgenza. Scintilla. Tortura.

Se viene a mancare una sola di queste tre condizioni un libro come Piressia non prende vita. L’urgenza è il bisogno di strappare all’indicibile qualcosa di cruciale: cruciale ai fini di una conquista creativa, se non addirittura d’un salto evolutivo della visione. La scintilla o l’intuizione – che talvolta è una vera e propria rivelazione – è il germe della storia: l’urgenza deve decollare scintillando, trasfondersi in una storia gravida di visione. E la scintilla, per appagarmi davvero, quindi per attivarmi, la voglio messaggera di stravolgimento: lo stravolgimento di un modo di guardare, perciò di pensare. E tre: la tortura è la scrittura, il lavoro di scrittura atto alla lenta generazione di un mondo esponenziale della visione, un mondo credibile persino nella sua assurdità, credibile in forza della sua verità, la verità poetica, un altro mondo, autonomo ma compenetrato con questo mondo.

Vengo al mio libro, senza sbottonarmi troppo. L’urgenza è stata quella d’interrogarmi su ciò che chiamo arte di fuoco e sulla confiammineità (con un neologismo) tra gli artisti di fuoco. A muovermi era un assunto: mentre noi viventi veniamo sgranocchiati dagli acari del tempo, il fuoco dell’arte no: è a prova di morte. La scintilla è stata una reincarnazione del fuoco – una reignificazione (altra parola coniata nel libro) – cioè la scoperta che il fuoco di Emily Dickinson è trasmigrato in Billie Holiday attraverso Franz Kafka. La scintilla mi rivolgeva una provocazione inventiva: fabbricarmi un metodo rigoroso, non privo di eterodossa scientificità, su una premessa apparentemente tanto folle. Quello che non immaginavo era che tale click epifanico sarebbe divampato in un bestione di quasi cinquecento pagine costatomi sette anni di ossessione scritturale. Ossia di tortura. Parlo di tortura perché solo sotto tortura le parole dicono la verità. Le mie parole.

Tu sei un talentuoso cineasta, un grandioso scrittore e un apprezzato docente di cinema. Come ti sei formato per arrivare fin qui, perché hai scelto questo percorso artistico e quanto ti sei allenato per raggiungere la tua riconosciuta integrità morale ed espressiva?

Ho studiato Giurisprudenza, ammazzandomi negli anni dell’università di film libri mostre, e mi sono laureato in Criminologia. Mentre scrivevo la tesi, Il grande criminale tra Criminologia e Cinema, ho provato un senso di piacere e di potenza inedito. Ho ultimato gli esami in tempo record: tre anni e una sessione, quando la laurea era quadriennale. Poi però mi sono preso un anno e mezzo per scrivere la tesi, lavorando giorno e notte, perdendo la cognizione del tempo. Lì ho visto schiudersi, tra le frasi che inanellavo, dimensioni. Tutto ciò che avevo vissuto e capito, amato e odiato me lo sono ritrovato nella pagina, imboscato, in modo inaspettato. Dario Melossi – il grande criminologo con cui mi sono laureato – capì subito che mi stavo muovendo su un crinale di pensiero connettivo, decisamente creativo, che tracimava dal letto del suo insegnamento ma si fidò, mi lascio fare. Più che scrivere, venivo scritto, questo sentivo, ed era un modo più intenso di vivere. Vivevo sulla mia pelle una rispondenza e con essa un’evidenza che avrei razionalizzato negli anni a venire: la mia strada era la creazione. E la creazione è diventata una droga. Pesante. Ciò che intendo con creazione è dare forma, una forma che è sostanza, al mio universo intimo attraverso un linguaggio espressivo. I linguaggi espressivi che ho fatto miei sono due: la letteratura e il cinema. Dunque creazione: combinare parole o immagini, parole e immagini, immagini e suoni, farli swingare e dissonare, insufflarvi il mio amore per la vita e la mia ferocia, la mia meraviglia e la mia sete d’abisso. Salto la cronaca. Dalla laurea in avanti s’è trattato semplicemente di bruciare i ponti e fare saltare i piani BCD, per giocarmi fino in fondo la partita dell’arte e del pensiero, una cosa sola per me.

A distanza di un quarto di secolo da quel punto di non ritorno, non vedo niente di più concreto dell’opera d’arte, ma proprio niente, in questo mondo che si smateria. Più concreto e più autentico, se l’artista non è un ciarlatano. Spappolato ma integro, a pezzi ma tutto d’un pezzo: non accetto altri modi di essere artista. O sei un dio – nel senso più sovrano e demiurgico del termine, pure se hai le pezze al culo, pure se nessuno ti ha concesso la chance di pubblicare una riga – oppure – che tu sia scrittore o regista o artista visivo o musicista – sei un impiegatuccio. La seconda opzione non l’ho mai presa in considerazione. A quel punto tanto valeva fare l’avvocato difensore, sarei stato uno di quelli bravi, ben remunerati, anche un po’ squalo, mi conosco. Niente prigionieri e niente compromessi, se vuoi essere un artista di cui ci si può fidare. Uno che può scagliare la prima pietra.

Come, dove e quando hai lavorato alla scrittura di Piressia?

Ovunque. Questo libro mi ha posseduto in senso sia spiritico sia sessuale. Non ho fatto altro che assecondare le sue fregole. Piegarmi alle sue sevizie. Il reame di cui mi credevo reggente, prendendo vita, ha iniziato a tiranneggiarmi. Aprendo spiragli che sarebbe stato vile non attraversare. Proponendo azzardi che la mia vitarte ha dovuto assecondare. Per cui il reggente s’è tramutato in galoppino puttanello inserviente. Gli ultimi tre mesi di bozze, in particolare, sono stati un massacro. Un avverbio toccato a pagina 32 andava a modificare un verbo a pagina 418. È solo un esempio per dare la misura di quanto la partitura abbia iniziato a suonarmele. A sangue. Tutto aprile maggio giugno ho avuto la sveglia puntata alle quattro del mattino. Due ore e mezza di bozze e poi andavo a fare dalle quattro alle otto ore di lezione, discorrendo della durata in Tarkovskij, dell’improvvisazione secondo Cassavetes, dei modelli di Bresson e così via. La mia compagna mi guarda e mi ripete: «Piressia ti ha incenerito la barba». Io riscontro che, nel corso di questi tre mesi, m’è spuntato sopra il mento, decentrato alla mia sinistra, un ciuffo bianco nel nero pelame che va ingrigirsi. Accumulo sul corpo trofei di guerra: la guerra della scrittura. Quest’ultimo lo vivo con particolare orgoglio perché mi assimila, sul versante pilifero, a uno dei miei più fulgidi idoli: il saxman Albert Ayler.

Piressia è un libro ammaliante, eppure labirintico. Potente nella scrittura, per nulla autocelebrativo, alquanto profetico per quanto hai osato abilmente mettere in campo sulla pagina, in termini di storia e stile. Mentre lo scrivevi come lavoravi alla storia pensata e poi riportata sul foglio?

Partiamo dallo stile. Lo stile per me è tutto. Nel senso che senza stile non c’è niente. Ma lo stile non è un insieme di stilemi. Io li stiletto, gli stilemi. Lo stile è la musica della ferita. Lo stile è il precipitare del mio sistema nervoso in scrittura. Lo stile sono io che deflagro in scrittura. È a colpi di stile che stano l’inenarrabile. Arrivo a dire che la storia è un effetto dello stile. La storia su cui m’incaponisco si fa megafono di ciò che urla riluce sanguina nel mio stile.

Questo però non vuol dire che una storia valga l’altra, al contrario. Sono molto esigente rispetto alla qualità inventiva della materia contro cui so in partenza che sbatterò la testa per anni. Credo nelle storie costruite a regola d’arte. Non riesco ad amare fino in fondo i libri che percepisco disossati. La costruzione però non deve andare a detrimento dell’espressione. Se mi punti una pistola alla tempia e mi costringi a scegliere – costruzione o espressione – dirò fino alla morte: espressione.

Piressia ha un’intelaiatura forte eppure ogni singolo blocchetto di prosa lo ritengo dotato di sufficiente densità poetica o concisione aforistica per generare una luce autonoma. M’è costato raggiungere questo equilibrio, senza rammollimenti, senza annacquamenti. I sughi mi piacciono ristretti. È la densità del particolare che fa la differenza tra un libro grosso e un grande libro. Ci sono prese d’aria tra le schegge di Piressia: pratico una mia idea di bellezza persino nel rapporto tra righe e spazi bianchi nella cornice della pagina.

La stranezza di questo libro non nasce da un volerlo fare strano. La sua anomalia è questione di fisiologia. Piressia non s’è sviluppato in maniera lineare bensì per cerchi concentrici. Parlerei di una concrescita di piani e fuochi, una concrescita insieme romanzesca visionaria filosofica, dove un ruolo decisivo è toccato agli imprevisti, ai passi falsi, ai cortocircuiti. In altre parole: lo scheletro del romanzo s’è formato insieme alla carne e alla pelle, gli organi e gli orifizi. Gli agenti patogeni potenzialmente letali si sono trasformati in salvavita conducendo il libro – di volta in volta – a una soglia biologica più progredita e artisticamente ambiziosa.

A distanza di tempo rileggi mai i libri che hai pubblicato? E guardi di nuovo i tuoi film scritti e girati? Che interconnessioni hanno, per te, tutte le tue opere scritte e filmate nel tempo?

I miei film li rivedo al cinema, di solito quando c’è un dibattito a fine proiezione. Come stasera, mercoledì 2 ottobre (specifico per i posteri): a questa domanda sto rispondendo sulla freccia che da Bologna mi porta a Bolzano dove alle venti e trenta proiettano un film del 2018, La lucina, opera mia e di Fabio Badolato tratta dal romanzo omonimo di Antonio Moresco, col suddetto in veste di attore o (meglio) incarnatore. Come stasera: sempre che durante la proiezione non preferisca uscire per farmi un bicchiere o due. Di certo vedrò Sbundo a Parigi dove – tra una decina di giorni, sabato 12 ottobre per la precisione – avrà la sua première.

Sbundo: gangster movie viscerale e rarefatto che che sarà emozionante mostrare in un luogo traboccante di storia come il Cinéma du Panthéon. Quanto ai miei libri, finora non ho mai sentito l’esigenza di rileggerne uno, intendo dall’inizio alla fine. Ogni mia opera rappresenta un fatto della mia vita: un fatto spirituale psichico fisico. Un generatore e un condensatore di senso. Un segnatempo, un segnavia. Ho profondo rispetto, oltre che affetto, per ognuna delle mie opere e per il tizio – lo sconosciuto (direbbe Cocteau) – che le ha generate, a prescindere da quanto mi senta vicino o lontano da esse. Lo rispetto – il me stesso che sono stato – perché so che non ho – anzi non ha – barato.

Che tipo di (futuro) lettore avevi in mente scrivendo Piressia?

Quando scrivo soddisfo un solo lettore: me stesso. E io sono un lettore che scrive per i morti. Non è una frase a effetto. Io scrivo davvero per Céline, per Primo Levi, per Artaud, per Blaise Cendrars. Come scrivo per Alberto Giacometti e Francis Bacon. Per Coleman Hawkins e Thelonious Monk. Per Murnau e Jarman. Per i compianti Ivano Ferrari e Peter Brötzmann. Sono loro la mia gente. Voglio meritarmela la loro amicizia. Dall’ignoto mi scrutano, soppesano le mie audacie e io voglio essere all’altezza di entrare nella loro cerchia. È questa la mia partita artistica. Tutto il resto è secondario, per non dire irrilevante e, anche quando faccio finta di tenerci, in fondo in fondo me ne sbatto. Sarà chiaro ai più svegli che, scrivendo per i morti, scrivo per i più vivi tra i vivi. Scrivo cioè per i portatori di una vita così capiente ed estesa da includere, tra le sue province, la morte. Un ultravivo per cui scrivo è il poeta Domenico Brancale, mio fratello di sangue.

Come hai individuato editore e collana giusti per un libro dissacrante come Piressia?

Dissacrante mi sta bene, a patto di aggiungere: ma nondimeno riconsacrante. L’editore: direi che è stato Wojtek che ha individuato me. Ciro Marino mi ha lanciato un guanto di sfida nel 2021. Io l’ho raccolto e gli ho sfoderato nel 2023 Piressia. Ciro ha avuto le palle di non tirarsi indietro e il fattaccio s’è compiuto. Collana: finire nell’Orso Bruno, dove mi hanno preceduto tra gli altri Antonio Moresco e Alessandra Saugo, non è stato nemmeno problematizzato, è avvenuto in modo spontaneo.

Avrai capito che non sono un complimentoso ma devo dire che sono fiero di avere il sostegno di un editore che ha scelto di giocare una partita letteraria assoluta. Assoluta: ovvero divincolata dal degrado circostante, dalla pochezza di tendenze letterarie in vertiginoso ribasso qualitativo.

Negli ultimi anni stiamo assistendo a un fertile proliferare di editori indipendenti e questa è una bella notizia. Ma dire che un editore è indipendente vuol dire poco niente se – fuor di nomenclatura – l’editore in questione non esercita una ferrea indipendenza sul versante della linea adottata ossia delle scelte che lo connotano, in cui s’identifica. Da quest’angolazione, Wojtek è un editore davvero indipendente. E coraggioso.

Trovo eloquente, a riguardo, spendere qualche parola sulla finalizzazione (con un termine cinematografico) di Piressia. A seguirmi è stata una splendida squadra di collaboratori (Lucio Leone, Alessia Cuofano, Emiliano Peguiron, Antonio Bobo Corduas) e non una sola virgola mi è stata torta.

Lo preciso perché sono uno che ascolta qualsiasi tipo di suggerimento ma rigetta qualsiasi forma di editing. Qualsiasi! Devo precisarlo a costo di farmi una pessima pubblicità presso i professionisti dell’editoria. Per una virgola torta con me finisce a schifìo. Per una virgola faccio saltare tutto e non è un’iperbole. Libro, prospettive editoriali, relazioni, persino amicizie: tutto. Il libro, come lo stile, è sacro. Se profanato, meglio non veda la luce, lo sopprimo io stesso. Idem per i miei film: non accetto ingerenze produttive nello specifico poetico. Patti chiari.

Sono consapevole di avere messo a dura prova – con infiniti giri di correzione, d’un perfezionismo sbordante nel maniacale – tutte le incantevoli persone con cui ho tagliato il traguardo di Piressia. Ma lo avevo messo in conto. Lo metto sempre in conto sapendo che, a libro fatto, i rapporti stressati si riconsolidano su un più alto livello fiduciario. Così è stato con Wojtek. Quando così non avviene, significa che ci si era fraintesi sulle cose importanti, che non ci si era sposati per amore, ergo poco male. L’esperienza, non solo editoriale, mi ha reso fatalista. Per certi aspetti sono una persona morbidissima: puoi farmi mangiare pizza o vietnamita o vegano, non mi cambia nulla; puoi portarmi al mare o in montagna, me li faccio piacere entrambi. Sulla scrittura sono però incoartabile, praticamente di titanio: non cedo di mezzo millimetro, non concedo un corsivo o salto rigo, se non sono convinto che sia un bene per il libro.

C’è un pensiero di Iosif Brodskij, poeta esule di esemplare tempra etica, che ha fatto mio e diffido di ogni artista che non l’abbia fatto, a modo proprio, suo: «L’estetica è la madre dell’etica». È la realtà estetica che ridefinisce la realtà etica. È l’estetica che innalza l’esperienza individuale accelerando lo spirito. È l’estetica che ci difende dall’asservimento impietrendoci davanti agli obbrobri del potere.

Rispetto al tuo vissuto autobiografico, i tuoi anni dell’infanzia quanto e come ti hanno stimolato per diventare l’artista che sei oggi?

Sono stato un bambino pensieroso. Sull’esistenzialista andante, dotato di una nettezza di sguardo e di una lucidità, per gli altri, sconcertante. Un animaletto domestico ipernutrito e altrettanto protetto ma al contempo contemplativo, angustiato da questioni speculative, dotato di una sorta di radar per avvistare le tare degli esseri umani, un aspetto che anni dopo mi avrebbe fatto sentire a casa leggendo Thomas Bernhard. Da bambino non facevo niente di speciale, solite cose di bambini. Lucertole calcio figurine. Ma le facevo da una prospettiva peculiare: affacciato sul fondante nonsenso dell’esistenza, un nonsenso prematuramente, e senza il minimo dramma, rivelatomi. Acqua fresca per la mia psiche. Lo nausea di Sarte e l’estraneità di Camus, lo spleen di Baudelaire e il cafard di Cioran: li ho embrionalmente sperimentati prima dei dieci anni. Questo bambino s’è scrisalidato in un adolescente scatenato. Precoce, vorace. Leale, spavaldo. Spericolatamente bisognoso di mettersi alla prova dell’urto in una terra violenta. Ho conosciuto la strada e ho fatto mie le logiche della strada. La mia educazione sentimentale ha avuto i sapori forti di ripetuti viaggi tropicali: Santo Domingo, Bahamas, Thailandia. Fin dal quarto ginnasio sono entrato nel giro delle discoteche. Quattordicenne, facevo tardi la notte e me ne andavo a zonzo con ventenni non proprio raccomandabili. Mi piaceva, mi gustavo tutto. Percepivo il lato cinematografico delle cose. Qualcuno volò sul nido del cuculo, Taxy Driver, Arancia meccanica, per dirne tre in ordine di visione puberale, sono film che hanno stabilito un prima e un dopo nelle vicissitudini del mio sguardo. E poi leggevo. Leggevo come un ossesso, ma quasi di nascosto, non volevo essere percepito troppo sensibile. Leggevo di notte perché sentivo che quello che vivevo di giorno non poteva essere tutto. Cresciuto in una casa dove i libri erano pochi e cattivi, subivo il fascino di certi titoli, lo subivo tremendamente. Più erano titanici, più mi arrapavo, più fremevo per affrontarli. Ancora ginnasiale, ho divorato i racconti di Poe e tutto il Nietzsche che m’è capitato a tiro. Ulisse e L’uomo senza qualità me li sono sparati uno dopo l’altro nelle mie insonnie di prima liceo. Anche dove non capivo, e c’erano un’infinità di cose che mi sfuggivano, traevo una direzione, mi proiettavo laddove mi sembrava prestigioso tendere.

Spiritualmente prestigioso.

Ebbene, oggi posso dire di non aver tradito la mia infanzia e nemmeno la mia adolescenza. Se moltiplichi le due cose, eccomi qui. Sono ancora quel bambino. Sono ancora quel ragazzino.

Come è stato girare dei film basati sulle opere di Antonio Moresco?

Antonio Moresco è e resta un modello d’integrità artistica. Quando l’ho incontrato nel 2008 avevo già trentadue anni. Pubblicavo dal 2000, avevo fatto film e stavo per fondare un paio di riviste. Insomma, ero già bello strutturato e Antonio è stato una conferma. La conferma che ero nel giusto. La conferma che per gente della mia e della nostra fattura c’è solo una via, che poi sono tre vie in una: la via della radicalità, la via dell’intransigenza, la via della profondità. Conoscendoci, abbiamo scoperto che le nostre visioni collimavano. È nata un’amicizia che non ha voluto limitarsi alla reciproca contemplazione. Sono cominciate le avventure insieme, tra cui due film realizzati, Il firmamento e il citato La lucina, e un terzo in canna, Chisciotte. Un bel giorno, col fanciullesco oltranzismo che contraddistingue i nostri progetti, abbiamo costituito una Santissima Trinità dove io mi ritrovo Padre, Antonio incorreggibile Figlio e – se ti stai chiedendo chi sia lo Spirito Santo – te lo svelo: il pittore e scultore Nicola Samorì. Sono e continueranno a essere numerose le ricadute creative della nostra comunione stellare. Almeno finché Samorì e io non inizieremo a perdere colpi, visto che Moresco – è risaputo – è immortale.

Come si svolge la tua giornata nei periodi in cui lavori a un libro o a un film?

Sono almeno vent’anni che non trascorro un solo giorno senza lavorare – se non altro mentalmente, di norma simultaneamente – a un libro e a un film. Stando sull’oggi: ho speso agosto e settembre zompando dal (cantiere che se non mi crolla addosso sarà il) mio prossimo romanzo al montaggio del documentario dove indago le declinazioni che mi stanno più a cuore del miglior jazz odierno (e che presenterò ad aprile 2025 al Torino Jazz Festival). Per inciso: non farei mai montare il mio film a qualcun altro, per me il montaggio è scrittura, la terza scrittura, dopo la sceneggiatura (che non è letteratura) e le riprese (che sono una lotta e un amplesso); montaggio è la scrittura più intima: ci sono io e la timeline, la linea del tempo del mio film.

Per cui ti rispondo: la mia giornata si svolge vivendo una vita senza soluzione di continuità con l’arte, vivendo quella che chiamo, appunto, vitarte. Zoomo: vivo contemperando esigenze, accudendo progetti e persone, dandomi tutt’intero quando lo richiede qualcuno o qualcosa che lo merita, concedendomi tregue minime, ritagliandomi momenti di sparizione e fanculo tutti quanti, coltivando ossessioni e massacrando passioni tristi, aggirandomi con una fiaccola tra i miei dark side, trattando l’insegnamento come una forma d’arte che pompa sangue nelle altre arti, imparando quindi dagli studenti, stroncando inerzie, sbarazzandomi delle cazzate, provandoci, non si finisce mai, amando e divenendo a misura dei miei dèmoni, con un solo gerundio: essendoci.

Alcuni pensatori di questa vita complessa, postulano da tempo che raccontare storie, con qualsiasi medium e forma, non cambia il mondo, perché – secondo loro – le narrazioni non incidono sul sistema reale degli accadimenti, sia quelli contemporanei che quelli futuri. La tua ricerca artistica a te, in tutti questi anni, cosa ha offerto?

L’arte è inutile. C’è arte e arte, è chiaro. Io parlo dell’arte di fuoco. L’arte concepita e vissuta all’apice della sua forza luminosa e termica. L’arte che accende. L’arte che brucia. L’arte che si pretende questione di vita e di morte. L’arte di fuoco è inutile ma bisogna intendersi sul termine. Dire che un’opera è inutile vuol dire che non presta servizi di pubblica utilità. Non ha tornaconto: il tornaconto, se non il ricatto, di risultati che esorbitano la sfera (della cura) dell’opera (in sé). Vuol dire che l’arte non è a servizio, non serve, non è servile. Non ho dubbi che l’arte sia inutile in questa accezione, come non ne hanno – e teorizzano di conseguenza – il metafisico Kant, il carnale Bataille, il funambolico Herzog. Ragazzi tosti.

L’arte non deve cambiare il mondo. L’arte non deve niente a nessuno. Può tanto però. Può per esempio cambiare una vita. La mia vita è stata cambiata dall’arte. Dai libri dentro cui mi sono perso e ritrovato accresciuto. Dai film che mi hanno abbacinato. Dai quadri che mi hanno investito. Dalla musica che mi ha rapito. L’arte mi ha letteralmente cambiato: violato potenziato alterato acuito deviato arricchito stravolto sensibilizzato sfondato intenerito indurito macellato infiammato…

Il mondo è fatto di singolarità, anomalie, solitudini in cerca dell’altro. Chi è stato cambiato è probabile farà qualcosa per cambiare il proprio microcosmo nella direzione cui riconosce maggiore senso, maggiore valore. Ogni mio scritto come ogni mio film cambia per primo me stesso nella misura in cui contiene una proposta di vita che mi sono dovuto conquistare in corso d’opera. Una proposta di vita condivisibile. Se il frutto del mio sforzo cambierà qualcuno mi farà piacere, tanto più se il cambiato avrà il garbo di farmelo sapere. Sono umano, tendo a non rinunciare a riscontri e condivisioni, abbracci e carezze. Mi prendo tutto, mi ci faccio la scarpetta. Sono fuoco, per la miseria! Ma questo mio troppo umano bisogno di contatto e calore non incide su cosa faccio né su come lo faccio. Voglio essere chiaro anzi chiarissimo col lettore, per questo lustro la frase finché non brilla, ma senza moine né salamelecchi. Non lecco culi se non per mio godimento. È lui che deve venire da me, avvicinare l’orecchio, acuire lo sguardo, se ambisce a sperimentare l’inatteso. Ci tengo a lui, non lo abbandono. Lascio però si perda e, se non molla, alzo la posta in gioco per condurlo in un luogo: un luogo di lucetenebra.

Stringo. Il cambiamento è e resta affare di chi riceve l’opera. Zero condizionamenti da parte mia. Se mi condizionassi in virtù di qualche localizzata utilità esorbitante la mia pugna con le parole e con le immagini – con la verità che prende corpo nel corpo a corpo linguistico – mortificherei qualcosa di fondamentale. Mortificherei, in prima battuta, il mostro: il mostro che mi abita. Il mostro cui sovente lascio fare i suoi porci comodi, per poi rimetterlo in riga, altrimenti sarebbe la fine. Il mostro che, rivendicando voce in capitolo, rivendica il proprio diritto di esistenza.

Esattamente come l’angelo.

Credo negli estremi. Scrivendo, innanzitutto scrivendo, mi abietto e mi elevo. Le spremute di buoni sentimenti producono l’arte lassativa che più mi disgusta. Personalmente sono disposto ad accogliere una proposta di gioia solo da parte di chi fronteggia l’orrore. Credo che un’opera di fuoco debba fare paura. Almeno un pochino. Credo pure che la peste artistica di questi anni pieni di merda e fuoco sotto cenere sia il politicamente corretto. Da questa prospettiva Piressia è un libro dannatamente politico.

Bolzano, 3 ottobre 2024, ore 8:41, un’oretta dopo il risveglio in una grande casa con vigna incorniciata dai monti (…infine ho rivisto La lucina, non sono riuscito a staccarmi dal grande schermo riempito dalle crepe dei calanchi lucani e della facciaccia di Moresco, i bicchieri sono venuti dopo, in un posto che si chiama Macello, in via del Macello 18…).

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