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Vicente Huidobro. Venti contrari

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La poesia è defunta, del tutto. Non i poeti, che si aggirano al buio come pesciolini d’argento. La poesia: nessuno più ne parla.

Tra chi si occupa delle lettere, tra le persone che conosco e che stimo, tra noi, nessuno parla più di poesia, mai.

Traduttori, consulenti editoriali, scrittori: nessuno.

La poesia è esistita, lo sappiamo, è esistita come le macchine a vapore, come il telegrafo, il magnetofono.

Non è un peccato, che non esista più, è terribile. Chi scrive, chi ne ha l’ambizione, dovrebbe leggerne molta, dovrebbe farlo a voce alta, dovrebbe cercare, nelle poesie, le parole nuove, quelle che pochi usano, che i poeti inventano.

Chi scrive dovrebbe scappare lontano da ogni forma di banalità. Ogni volta che uno scrittore usa un “modo di dire” uno spirito delle lettere piange.

La cura per la scrittura scontata è la poesia. Certe forme e certe immagini agli scrittori di prosa non vengono in mente.

Lo scrittore di prosa è tutto preso dalla storia, dall’intreccio. Altra cosa, la trama, che io trovo insopportabile e castrante.

Allo scrittore sfugge, a volte, quello che al poeta non sfugge mai: il linguaggio è l’unica cosa che conta.

Per questo la poesia dovrebbe essere la base di ogni studio letterario e sarebbe d’accordo Vicente Huidobro che fu poeta sempre, anche quando non scriveva versi. S’inventò il Creazionismo, visse avventurosamente, scappò dal Cile, visse a Parigi. È stato amico di Picasso, di Radiguet. Il Cile è patria di poeti: Parra; Bolano; Neruda; Gabriela Mistral… e di tutti loro Huidobro è il padre, quello che si ammira, che si odia, da cui si scappa e poi si torna.

Le Edizioni Arcoiris portano in Italia Venti contrari, tradotto da Livio Santoro.

Mi verrebbe da dire che si tratta di una antologia di aforismi e ritratti ma sbaglierei perché Venti contrari, pubblicato per la prima volta nel 1926, venne concepito dall’autore come un libro spiazzante ed eterogeneo, una specie di autobiografia del pensiero e delle passioni.

Mai casualmente, il libro si apre con una paragrafo dal titolo “La confessione inconfessabile” per poi passare a “Gli innovatori”.

In Huidobro tutto è calato nella forma letteraria. Anche quando racconta un personaggio, la sua passione per un personaggio, lo fa attraverso una scena, il dialogo con qualcuno, immergendo i suoi ricordi dentro una finzione.

Huidobro pensava sempre a se stesso in letteratura, convinto che le parole fossero magiche e vive, come folletti che il poeta soltanto avesse il dono di creare,.

Anche quando racconta Napoleone, quando polemizza con Ortega y Gasset, Huidobro racconta sé stesso.

Molto belli i passaggi in cui dialoga con Radiguet, quando Monsieur bébé, come lo chiamava Cocteau, chiede a Huidobro chi avrebbe resuscitato dei personaggi della storia e il grande cileno tira fuori un’inaspettata Marquise de Brinvilliers, donna stupenda e terrificante, forte di una cattiveria cristallina.

Huidobro ci racconta i suoi crimini, il suo amore per un uomo altrettanto scellerato e il boia che piange mentre le taglia la testa.

Ho pensato molto a Cioran, mentre leggevo Venti contrari, all’Antologia del ritratto, a Squartamento.

Certamente per la forma, entrambi sono lapidari, esprimono sentenze e convinzioni, ma è l’uso della lingua che maggiormente li accomuna, non lo stile, assai diverso in questi autori, non il pensiero, che solo talvolta li accomuna, ma il loro essere poeti, il loro essere inconsueti.

Al di là dell’interesse che si può avere per il suo pensiero, la prosa di Cioran era incantatoria. E così Huidobro.

Pierangelo Consoli

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Vicente Huidobro, Venti contrari, Edizioni Arcoiris 2024, Pp.161, Euro 13

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