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La lupa. Intervista a Emmanuele Bianco

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Emmanuele Bianco (Milano, 1983) vive a Roma dove lavora come aiuto regista nel cinema. Ha frequentato la scuola Holden e pubblicato i romanzi Tiratori scelti (Fandango Libri 2010) E quel poco d’amore che c’è (Fandango Libri 2013) La pura carne (Baldini&Castoldi 2017) La lupa (Mondadori 2024). Ha scritto per D di Repubblica e alcuni suoi racconti sono stati pubblicati da La Stampa, Nazione Indiana, Il Corriere della Sera, Morellini Editore. Gioca nell’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale italiana scrittori.

Mario Schiavone

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Sei un valido autore di romanzi, pubblicati negli anni da riconosciute major editoriali e – ovviamente – un appassionato fruitore di narrazioni. Sia quelle inscritte nella Storia, intesa come flusso di accadimenti di un tempo passato, sia delle storie di finzione pensate e scritte come oggetti narrativi per il lettore di oggi e domani. Dopo tutte le storie scritte, quelle lette, quelle viste al cinema, e quelle scoperte attraverso altri medium tu oggi come continui a preservare, da scrittore, la tua capacità d’indagine sulla vita e sul mondo in toto?

A mio avviso l’unico sentimento che veramente riesce a preservare qualcosa è la curiosità. La curiosità ci muove, anche proprio fisicamente, ci spinge a prenderci cura delle cose. Alla fine qualsiasi avvenimento che accade agli esseri umani, da quello più insignificante e personale fino ad arrivare alla grande Storia, viene raccontato. Volerne sapere di più, interrogarsi. Credo sia questo a mantenerci accesi: resistere alla tentazione dell’indifferenza.

Quanto vissuto della vita quotidiana finisce nelle tue storie, quanto pensiero immaginato resta fuori dalla pagina scritta?

Quando la realtà tracima l’esperienza diretta per assumere i connotati epici del racconto, solitamente lo fa allagandone il perimetro. È difficile dire quanto di vero finisce in un romanzo, molto probabilmente nulla. Ciò che si vive, ciò che abbiamo in qualche modo processato, invece, rischia di finire tutto o in buona parte sulla pagina. Quello che varia da scrittore a scrittore è la capacità, o la volontà, di trasfigurare. Gli artisti non sono altro che sfiatatoi tra la realtà e la sua reinterpretazione, il suo multiverso. Fanno questo lavoro di continuo, compiendo il proprio destino senza poterci fare granché, un po’ come le api operaie che per produrre un chilo di miele devono compiere quattro milioni di esplorazioni floreali.

Ammesso che esista – concretamente – una definizione utile di personaggio letterario credibile, da scrittore cosa hai più a cuore dei tuoi personaggi? E cosa non tolleri da lettore?

Ciò che mi sforzo sempre di fare è creare dei personaggi che siano il più possibile contradditori, perché le contraddizioni sono ciò che più caratterizza

Ph. Maria Vernetti

gli esseri umani. Nella coerenza generale, questo aspetto è molto utile anche per indovinare degli snodi narrativi, nonché uno spunto molto utile a far scivolare la trama. È molto importante creare dei personaggi il più possibile tridimensionali, capaci di stupire, capaci di accogliere, capaci anche di offrire una certa ribellione, proprio come succede nella vita, a ciò che il destino – e cioè il narratore – ha in serbo per loro.

Negli anni hai lavorato anche come aiuto regista, mestiere complesso, quello del regista eppure meraviglioso per lo sguardo che allena chi lo esercita. Tu che rapporto hai con le serie tv, il cinema e i fumetti? E quali sono i tuoi autori preferiti di questi tre medium narrativi?

Tra i miei registi di riferimento ci sono Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Clint Eastwood, Steven Spielberg, Stanley Kubrick, Billy Wilder, Federico Fellini, Sergio Leone, Vittorio De Sica. Devo confessare che non ho una grande tradizione di fumetti, ma ho letto moltissimi Dylan Dog in passato. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere ABC, di Ausonia, una graphic novel edita da Coconino: davvero incantevole.

Hai giocato nella nazionale scrittori italiana: come è stata quella esperienza?

Ho giocato per tanti anni e tutt’ora, sempre di meno purtroppo, quando posso partecipo volentieri alle iniziative dell’Osvaldo Soriano Football Club. Ricordo esperienze fantastiche come i tornei internazionali – Writer’s league – in Germania, Israele, Ungheria, Austria, Svezia. Delle vere e proprie zingarate culturali e sportive. I primi a inaugurare queste manifestazioni siamo stati noi, in Toscana, ormai quasi vent’anni fa, grazie alla volontà di Alessandro Baricco, che ebbe l’intuizione illuminante – una delle tante – di fondare la Nazionale Italiana Scrittori.

Il tuo ultimo libro, La lupa (Mondadori, 2024) è un godibile romanzo storico, preciso affresco di un’epoca e di una condizione umana che hai tratteggiato con stile: come (e quando) hai lavorato a questa storia?

Questo libro sta dentro di me da molto tempo, ma ho iniziato a scriverlo durante il lockdown, ma non in casa, bensì in macchina, fermo in vari parcheggi di una borgata di Roma Nord. Ogni giorno uscivo di casa con la scusa del supermercato e mi parcheggiavo da qualche parte vicino casa per scrivere. È stato bello approfondire certi avvenimenti storici, anche se nel romanzo fanno sempre da fondo. Considero quegli anni a cavallo tra la fine della seconda guerra mondiale e il primissimo dopoguerra, e quei luoghi, i boschi della Calabria, la mia origine spirituale ed è stato per me un privilegio aver avuto la possibilità di affrontare l’argomento.

In fondo, alla fine della corsa del vivere quotidiano, tu perché credi ancora nel potere delle storie?

Perché è tutto una storia, un racconto. Perché è l’unica cosa che nessuno ci potrà mai togliere. La parola, la narrazione, rappresenta l’unica vera chance di vivere fino in fondo, l’unica vera occasione di morire da immortali.

Se te la senti, raccontaci di come è nata questa tua passione per la scrittura. (e della strada che hai percorso per arrivare ad essere uno degli autori più apprezzati sulla scena letteraria italiana.)

Credo sia nata due volte: la prima attraverso un’esperienza epistolare durante quel periodo incantevole che è l’adolescenza e la seconda pochi anni dopo, alla scuola Holden. Durante la prima avevo sentito che qualcosa si stava accendendo, ma era tutto molto acerbo, fanciullesco mi verrebbe da dire. In più all’epoca tutti gli adolescenti d’Italia si scrivevano lettere (e cartoline) quindi non c’era davvero nulla di speciale. A Torino, invece, era stato come mettere a fuoco qualcosa, ma mai del tutto. Anche se in fondo la passione per la scrittura nasce ogni volta che ti siedi davanti al file e ti gira bene.

Dopo tutta la strada fatta fin qui come autore di storie, cosa diresti a un/una giovane aspirante scrittore/scrittrice che viene a bussare alla tua porta per chiedere consiglio sulla strada da prendere?

Vieni, siediti. Vino bianco o rosso?

Ti andrebbe di raccontarci di cosa tratta il tuo prossimo libro?

Sarà un libro che avrà dei punti di contatto con La lupa, ambientato tra la fine degli anni 50 e la fine degli anni 70, in un nord Italia che ancora doveva essere costruito. Tra le mie ambizioni c’è quella di scrivere perlopiù una storia d’amore.

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