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La stagione. Intervista a Marco Raio

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Marco Raio è nato a Napoli nel 1989. Si è laureato in Filosofia alla Federico II e ha studiato sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Editor e redattore freelance, lavora alla Libreria Ubik di Napoli. Ha pubblicato brevi saggi filosofici e il racconto “Sciame di case al buio” sulla rivista letteraria Fritz n. 02.

Mario Schiavone

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Nel tuo libro d’esordio, La stagione (Bompiani,2024), la tua scrittura ben ponderata indaga legami umani e luoghi urbani, il sentimento del vivere e le suggestioni di chi si affanna a condurre la propria esistenza attraverso un paesaggio che si fa narrazione del territorio stesso. Come nasce questa tua ricerca autoriale?

La stagione è stato il mio primo tentativo di trovare una cornice che potesse contenere e accogliere al meglio il mio bisogno di scrivere. Ho scelto di esordire raccontando un luogo, Positano, che conosco fin dall’infanzia, e di procedere per “esaurimento” della sua estensione geografica e temporale, con l’intento di provare a descriverne quasi ogni metro e di conseguenza ogni episodio per me significativo ad esso collegato, affondando a piene mani nel mio vissuto. L’obiettivo era quello di ottenere una condensazione di estati e di età diverse in un’unica “stagione” che le racchiudesse tutte per cerchi concentrici, una stagione che facesse da specchio alle dinamiche familiari dei miei personaggi, intrappolati in un tempo circolare da cui sembrano non volersi congedare.

Sei scrittore e libraio, ma hai studiato anche come sceneggiatore: perché leggi e scrivi ancora storie, in un mondo come il nostro che pare volersi avviare (ad ogni costo) alla distruzione totale o alla rinascita rivoluzionaria?

Scrivo per bisogno di raccoglimento, per esigenza di elaborazione e trasfigurazione delle esperienze vissute, per urgenza di costruire un fragile baluardo di fronte alla dispersione del tempo, al disfacimento dei ricordi che sfumano, dei pensieri che trapassano sempre in nuovi pensieri. Scrivo per costruire scatole e mettere al loro interno tutto ciò che ritengo possa esserci di prezioso, nell’illusione di offrire un riparo durevole.

Come, dove e quando hai lavorato alla scrittura del romanzo La stagione?

Seppure con diverse intensità di ritmo, ho lavorato alla Stagione per quasi nove anni, più a Napoli che a Positano, su più scrivanie, sia in case sia in biblioteche, e in periodi molto diversi della mia vita. Il libro ha conosciuto più stesure e più lunghezze, prima di approdare all’attuale versione. Considero La stagione il progetto di un ventenne, con la sua inevitabile dose di idealismo e di ingenuità, che solo un trentenne, più determinato e realista, è riuscito a finalizzare.

La stagione è un romanzo sincero, eppure mostra pagine di pura letteratura, nonostante tu abbia affrontato temi cari ad altri autori del passato. Quanto ti è pesato fare i conti con autori* che io trovo simili a te per sguardo e necessità espressiva? *(penso ad esempio a Moravia (per il passato) e a Sandro Veronesi per il presente, e a tanti altri che per ragioni di spazio non cito, ma che spero di citare nella futura recensione completa al tuo romanzo)

Ogni possibile comparazione con scrittrici e scrittori del Novecento mi onora. Personalmente trovo sempre molto difficile accostare la mia scrittura a quella di altri autori. In questi mesi si è parlato dei contatti della Stagione con Ferito a morte di La Capria e con Stoner di John Willams, ma forse la scrittura che sento più vicina è quella Althénopis di Fabrizia Ramondino. Per il resto non sento il peso della letteratura precedente. Semmai le opere del passato si rivelano una presenza confortante, una scossa che deve spingere le scrittrici e gli scrittori di oggi al massimo dello sforzo, a mettere su carta quanto di meglio sono in grado di scrivere. In certe pagine di Perec, di Duras, di Modiano ho trovato profonda ispirazione e le conferme che cercavo su una certa letteratura della memoria, che possiamo chiamare autobiografica o autofinzionale, con cui avevo intenzione di cimentarmi.

Che percezione hai, da libraio, del lettore contemporaneo? E da scrittore?

Credo sia impossibile parlare di un solo lettore. Ci sono più lettori, anche all’interno di ognuno di noi. C’è il lettore formato, che ha un’idea precisa di ciò che cerca in un libro, come fosse impegnato in una ricerca personale di tasselli, mossa dall’intenzione di comporre un proprio originale mosaico di letture. Ci sono poi lettori più curiosi e aperti alle sfide, che accettano volentieri un consiglio, e invece lettori occasionali, che si lasciano condizionare da ciò che detta il mercato editoriale, con le sue campagne pubblicitarie sui social network e sui giornali. Da scrittore ho incontrato lettori superficiali ma anche tanti lettori affamati di buona letteratura, interpreti attentissimi, le cui parole hanno reso la mia opera più chiara a me stesso.

Che tipo di lettore avevi in mente scrivendo La stagione?

Rileggo sempre ad alta voce quello che scrivo, cercando di immedesimarmi in un lettore ideale, ma ho scritto La stagione senza mai pormi il problema di un suo possibile pubblico – e se è per questo senza pensare mai in concreto alla sua pubblicazione. Ogni mio sforzo è stato teso a curare la prosa perché la voce del narratore che ho affinato negli anni suonasse nitida e un tutt’uno con la temperatura dei pensieri e delle emozioni che volevo emergessero.

Quanta materia del tuo vissuto trasfiguri per le tue storie e quanta vita concreta non entra nella finzione narratologica?

Susan Sontag ha scritto che la scrittura è una porta stretta e che certe fantasie, come i certi mobili ingombranti, non ci possono passare. Credo che non tutte le esperienze di vita debbano necessariamente diventare materia letteraria, ma soltanto quelle che, frutto di una sincera selezione, risuonano davvero con le corde interiori di un autore e che potenziano la sua poetica. Sono convinto che si debba scrivere sempre e solo per urgenza narrativa, mai per mera opportunità.

Rispetto ai tuoi studi filosofici, i tuoi anni da studente quanto e come ti hanno stimolato per diventare il narratore sensibile che sei oggi?

Sono cresciuto circondato da libri, forse più da saggi che da romanzi. Nella filosofia, così come nella psicoanalisi, ho trovato gli strumenti critici che tutt’ora sono il mio filtro sul mondo, da scrittore e da uomo. Allo stesso tempo ho deciso di allontanarmi dalla filosofia. Volevo scrivere attraverso prime persone, non astrattamente. Volevo affondare nella vita, non cercare di superarla nelle idee. Volevo avere la libertà di fare domande e di non trovare risposte.

Da scrittore, quando sei in giro per Napoli, cosa appunti nel tuo taccuino e cosa abbandoni per strada perché poco stimolante sul piano narrativo?

Prendo spesso appunti, su cui posso ritornare dopo un giorno o dopo mesi. Per lo più cerco di fermare pensieri che altrimenti mi sfuggirebbero. Mi capita però di trascrivere parole ascoltate in giro o di abbozzare descrizioni di oggetti o scorci incontrati per caso, fissando qualche aggettivo. Guardo molto per terra, la superficie della strada, proprio come il personaggio di zio Renato del mio romanzo, anche per lasciarmi ispirare. Mi piace osservare e a volte raccogliere le cose che gli altri buttano via.

Come si svolge la tua giornata nei periodi in cui lavori a un racconto o a un romanzo?

Scrivo principalmente al mattino, destinando alla scrittura le mie migliori energie. Rileggo e riscrivo costantemente, disfacendo e ricucendo il testo di continuo. Per quante ore io passi davanti al computer o a un foglio, considero un grande successo ottenere anche soltanto una mezza pagina scritta. Se sono a lavoro su una storia, non riesco a staccarmi mai dall’intreccio e dai miei personaggi. Anche quando sono lontano da loro e sono occupato a fare tutt’altro, la mia mente non li abbandona mai. Scrivere mi richiede un grande sforzo, di concentrazione, di pazienza e di rinuncia. Non capisco come qualcuno possa considerarlo un divertimento.

Leggere storie, scrivere storie, consigliare storie ad altri: sembri una persona nata per vivere di inchiostro e carta, voci e immagini. Questo modo di stare al mondo, in tutti questi anni, a te cosa ha offerto?

Credo che vivere fra le storie, ascoltarne, leggerne, provare a crearne di nuove, mi faccia sentire meno solo.

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