“Salvarsi la vita” di Pierangelo Consoli (Nuova Editrice Berti, 2024 pp. 168 € 18.00) esce nelle librerie il 24 ottobre. Il titolo profetico del libro invita il lettore alla previsione emotiva della speranza, alla fiducia responsabile e matura di allontanare l’impulso individualistico del rifugio egoistico e percorrere la generosa, solidale destinazione di una finalità narrativa alla scoperta avventurosa di se stessi in rapporto con gli altri. Pierangelo Consoli inaugura la prova di maturità letteraria attraverso la storia del giovane Arturo, il dolore crudele per il lutto della madre, l’inafferrabile legame con il padre, l’invisibile e impalpabile difficoltà dello stare al mondo, la volontà di superare la fragilità dello sradicamento e la vulnerabilità del sospetto di non appartenenza. Indica il percorso esistenziale di un’umanità malinconica e irrequieta, disorientata dall’incomunicabilità ed entusiasta per le propizie dinamiche di amore e di amicizia. Il romanzo, nella realistica e saggia testimonianza delle vicende vissute, diffonde un’educazione sentimentale, manifesta la timida consapevolezza emotiva dei personaggi, intorno ad Arturo, Renato e Manuela, la ricerca di relazioni autentiche e il profondo disagio nascosto dietro l’approfondimento poetico e romantico del protagonista, segnato dall’indifesa sensibilità e dalla riservata virtù introspettiva.
Le parole di Pierangelo Consoli riempiono il libro di una toccante e coinvolgente redenzione, esprimono la dottrina della cura, riferiscono la riabilitazione confidenziale del riscatto nel passaggio di ogni interpretazione e interazione comunicativa, comprendono la direzione dell’umanità, possiedono l’essenza della fratellanza. Provengono dalla comprensione compassionevole dell’identità, conquistano l’impegno e il contenuto di un eroismo amorevole che si rispecchia nel territorio dell’anima, estendono l’osservazione indulgente della personalità dei personaggi, il compimento nei mutamenti tra autoaffermazione e affiatamento sociale, rivestono la pulsione del valore affettivo nell’illuminazione delle memorie sentimentali. La scrittura di Pierangelo Consoli consolida l’insegnamento al coraggio lungo l’itinerario della vita che sorprende a ogni incrocio, lenisce l’innocenza dei desideri, addolcisce l’ingresso traumatico della sofferenza con il volo di un destino che sottrae all’affanno la consolazione sincera di un viaggio interiore e protegge il credito intangibile delle esperienze. La dolcezza di uno stile commovente e prezioso, in cui lo strumento della conoscenza prevede l’esecuzione del bene, oltre lo squarcio del male, mantiene l’approccio leale del confronto umano, tra la fluidità dei ricordi e delle illusioni e la densità delle attese, sostiene l’asprezza e l’inclemenza delle promesse, nella frattura tra innamoramento e disamore.
Pierangelo Consoli fa rinascere dalle ferite della vita il risanamento di un pensiero coscienzioso che costituisce il disegno dell’esistenza nei seguenti propositi: avere un senso, recuperare l’humanitas, accogliere, considerare e ricercare la benevolenza tra gli uomini, riscoprire la magia degli incontri e delle occasioni d’amore, la gratuità dei doni ricevuti. “Salvarsi la vita” costruisce narrativamente la spontaneità sincera della vitalità, accorda energia e calore alla riflessione intimista, trascrive l’evoluzione sensitiva delle emozioni, il disorientamento tra debolezza e resistenza, in bilico tra lo scacco del fallimento e la pienezza della riuscita. Il libro trascina il timore dell’inquietudine e la risorsa del tempo, inteso come energia generatrice di una visione interpretativa, immersa nell’attrazione per la baldanza dei sogni e nella spinta avida alla felicità, apre l’orizzonte della salvezza, contro l’isolamento, consuma i contrasti tra l’ostilità dell’estraneità e l’impassibilità della perdizione. L’amore concede la capacità di abbracciare la sorte dei personaggi nella loro agilità di vivere, accoglie le richieste di libertà e di complicità, riconosce la delicatezza della fantasia, riannoda le fila di un appassionato appuntamento con il sorpasso delle difficoltà, colma il vuoto dei conflitti. Pierangelo Consoli insegue la corsa a ostacoli, nella tenerezza della fugacità, contro una solitudine ancora piena di timori ostinati e appartati, di ansie segrete e inaccessibili, mentre è la vita stessa che chiede di essere salvata.
Rita Bompadre
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Leggere era un modo per allontanarmi da tutto e mi assorbiva così tanto che non mi accorgevo del tempo che passava, né di cosa mi succedeva intorno.
Certe volte ricordavo a stento cosa avevo letto. Le parole mi attraversavano e lasciavano sedimenti che scoprivo solo più avanti, giorni o addirittura settimane dopo.
Questo stato d’ipnosi letteraria poteva arrivare ovunque, anche in treno, in metropolitana. Ritornavo alla vita spossato, come posseduto da uno spirito e poi abbandonato, ormai inservibile. A quel punto chiudevo gli occhi, cercando di recuperare le forze, e inseguivo lo scintillio nel buio che man mano assumeva forme geometriche indistinte, e rimanevo così a lungo, assente.
Per scrivere invece avevo bisogno di essere presente. Avevo bisogno di silenzio e di solitudine. Scrivevo con ogni particella del mio corpo, ed era sempre molto faticoso. Rileggevo ogni passaggio, e lo modificavo ancora e ancora. Raramente i paragrafi avevano una forma definitiva. Certe volte ero convinto di aver finito, di aver scritto con una certa precisione quanto mi passava per la testa, ma poi mi mettevo a letto, chiudevo gli occhi, e mi veniva in mente qualcosa che avevo tralasciato, una parola o una frase, e allora mi costringevo ad alzarmi, a riprendere il quaderno, per cancellare e riscrivere. Andavo avanti così per ore e per giorni e poi mi avvilivo e strappavo tutto, piangendo. Mi sembrava chiarissimo che non aveva senso continuare, che se non ne ricavavo almeno un po’ di felicità, di soddisfazione, tanto valeva lasciar perdere.
Non avevo amici e passavo troppe ore a sfinirmi in quell’estenuante ricerca di qualcosa che, scritto, avesse una vita sua. Pensavo alle mie storie come a dei feti deformi, nati da parti dolorosi, che trovavano la forza di farsi strada e vivere per qualche ora, zoppicando, sbavando e mordendo. In momenti così avrei voluto solo un’anestesia completa, che mi liberasse dell’ansia e delle aspirazioni, delle delusioni, regalandomi un riposo totale, senza sogni. Escogitavo anche stratagemmi che poi non tentavo, come l’eroina, che temevo abbastanza da starne alla larga.
S
an Lorenzo era vicina a una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa e in quasi ogni famiglia c’era un lutto, un disastro, un guaio legato alla droga, di cui non si voleva parlare. Escludevo, quindi, la possibilità concreta della sostanza, ma non l’idea della sostanza in sé, frastornato dal desiderio di assenza a cui l’associavo. La mia era una fantasia che si concretizzava nel feticcio del buco sul braccio. Il desiderio di allontanarmi, di anestetizzarmi, di diventare freddo, era talmente forte che mi sembrava di sentire persino dolore. Non essendomi mai bucato, ingenuamente pensavo che avrei avvertito una resistenza granulosa sotto al pollice in pressione. Mi vedevo dall’alto, caricare la siringa fino a renderla rigida, e immaginavo il sonno, la tranquillità, la vita che si allontanava dolcemente, per sempre. Pensavo alle vene annerite, alla stanchezza, pensavo al sangue che s’ingorgava, al cuore che pompava a fatica, al cervello che galleggiava come una pesca sciroppata nel maraschino.