Il focus de “Le Tre Domande del Libraio” su Satisfiction questa settimana è incentrato su “Il cuore dell’uragano. Lettera a un ministro dell’istruzione sulla scuola che meritiamo” di Alfredo Palomba, pubblicato nel settembre scorso per Bompiani Overlook. Il libro arriva dopo i due romanzi pubblicati da Wojtek Edizioni, Teorie della comprensione profonda delle cose del 2019 e Quando le belve arriveranno del 2022, e il racconto lungo La piccola gente, uscito per Tetra nel 2022.
Alfredo, ci ritroviamo su queste pagine dopo un paio di anni a raccontare un nuovo libro: uno straordinario saggio narrativo sulla scuola, messa sotto la lente di ingrandimento da un osservatorio privilegiato, quello di un insegnante precario. Vogliamo spiegare come nascono l’idea e l’urgenza di scrivere questa lettera a un ministro dell’istruzione che è anche una precisa testimonianza reale?
Mi piace pensare che l’osservatorio privilegiato di cui parli non sia tanto quello dell’insegnante precario quanto quello dello scrittore, di un tizio cioè abituato a giocare con la finzione e, quindi, con le pieghe e le sfumature del concetto di “reale”. Hai fatto bene a definire il libro “saggio narrativo”: lo considero, certo, una riflessione a tutto tondo sul mondo della scuola che vuole metterne in luce criticità e potenzialità e parte dalla mia reale esperienza scolastica ma anche, appunto, una narrazione, un racconto: in quanto tale non si preoccupa della totale aderenza del vissuto al raccontato, della strana occorrenza che chiamiamo “verità” e, peraltro, nemmeno del realismo. È questa l’ambizione de Il cuore dell’uragano e forse lo scarto rispetto alla nutritissima fila di libri sulla scuola, diversi dei quali pure notevoli: voler essere un oggetto anzitutto letterario. Ero ben consapevole, scrivendolo, che i commenti sul libro avrebbero privilegiato il cosa (il tema della scuola) rispetto al come (le modalità con cui ho deciso di affrontarlo). Era un rischio calcolato già quando Bompiani, nella persona della editor Giulia Ichino, mi ha chiesto di scrivere un saggio sulla scuola: ho risposto a Giulia che non avrei saputo né potuto scriverle un saggio puro, per fortuna lei ha accettato la sfida e il risultato è il libro che hai letto. Ci ho lavorato come a un romanzo, e credo che un romanzo abbia le potenzialità per denunciare le storture tanto quanto un saggio; ho messo insieme le due forme sperando che conflagrassero in un libro per me soddisfacente e per il lettore informativo sì, ma anche emozionante: credo di sentirmi a posto, da quel punto di vista.
Chirurgica e spietata l’analisi sul mondo dei professori; si arriva a pagina 55 e si resta spiazzati dalle parole: “Io la odio, la loro inadeguatezza. La odio e mi sento davvero l’ultimo dei meschini a provare sentimenti del genere. L’incapacità che tentano di nascondere, senza riuscirci, è terribile, spaventa tutti quelli che hanno intorno. Odio le loro cadute… Li odio, i Dodaro e le Benassi, le Dio mio, com’è possibile e i Bozzi, e non solo a causa della loro inadeguatezza. Li odio perché sono pericolosi per gli alunni: una delle poche cose, forse addirittura l’unica, che davvero non potremmo e non dovremmo mai permetterci. La sola eventualità di non essere una presenza positiva e costruttiva, per i ragazzi, dovrebbe squalificarci dalla possibilità non dico di provare a insegnare loro qualcosa, ma proprio di frequentarli. Nessun ragazzino merita quella paura. Non è giusto.”
Alfredo, dalla tua analisi, non pare esserci scampo per la categoria, e, come ne Il grido del maestro Moresco, la tua invettiva è implacabile e punta davvero al cuore dell’uragano. Ti va di dettagliare meglio questo aspetto che parte dalla sciatteria del corpo docente e arriva a investire pure l’incuria degli edifici e dei dispositivi scolastici?
Penso che la letteratura non debba mai fare sconti a niente e nessuno e se tanto mi dà tanto Antonio Moresco – che di un capitolo de Il cuore dell’uragano è anche un personaggio – la pensa allo stesso modo. Nella mia carriera di insegnante girovago ho incontrato moltissimi colleghi splendidi, dedicati, competenti, da cui ho imparato e imparo. Ho trovato anche persone delle quali, fin da subito, ho pensato che svolgessero un lavoro non adatto a loro. E non tanto o non solo per una questione di competenze relative alla materia, in cui non mi immischio: fare il docente è un lavoro, ho imparato, che riguarda anzitutto la capacità di guidare un gruppo di persone probabilmente non disposte di buon grado a essere guidate e, allo stesso tempo, con un grosso bisogno che qualcuno si incarichi di prestar loro attenzione e ascoltarne le istanze. Credo che per svolgere bene questo mestiere ci sia bisogno di un profondo senso della giustizia, di buonsenso e spalle larghe. Ho visto colleghi farsi sopraffare dalla fatica e dalla gestione di classi difficili, ho assistito ad alcune cadute che hanno spaventato i ragazzi e, per la verità, anche me. Non dovrebbe succedere, non dovremmo permettere che ci succeda.
Del resto, non riesco a non guardare in prospettiva il lavoro che svolgo quotidianamente con le mie classi e a chiedermi se io sia adeguato al ruolo. È una domanda costante, alla quale non so e non oserei rispondere. Ci spero, ma il primo insegnante della cui bravura dubito sono io stesso, ogni giorno. Confrontarsi coi ragazzi ci mette di fronte alla continua sfida di essere bravi, il più bravi possibile, ed è una sfida che, per quanto mi riguarda, non sempre penso di superare. Ci sono giorni buoni, ce ne sono altri meno buoni, in cui sento che avrei potuto fare meglio, che avrei potuto dare di più.
Riguardo alla generale e talvolta scandalosa incuria di tanti edifici scolastici, voglio farti anzitutto l’esempio ispirante della preside Eugenia Carfora dell’istituto Morano di Caivano, che ha trasformato una scuola grigia e trascurata in un presidio di cura e dedizione, in cui giovani spesso vicini all’ambiente dei clan di camorra si sentono accolti, seguiti. Ti segnalo poi un libro appena uscito per Einaudi, Città foresta umana. L’empatia ci aiuta a progettare scritto dall’architetto Mario Cucinella con la giornalista Serena Uccello: un capitolo in particolare tratta di edilizia scolastica e della necessità di pensare o ripensare le scuole come luoghi strettamente connessi con l’ambiente circostante, dal fortissimo valore memoriale e, di nuovo, luoghi in cui la cura sia elemento imprescindibile. La cura dell’altro, la considerazione dell’altro come un valore di per sé, dovrebbero essere il fulcro del nostro mestiere.
Un libro che mette a nudo i meccanismi complessi del sistema scuola ma che diventa strumento di indagine per interrogarsi sul suo presente, attraverso una radiografia approfondita del disagio e delle fragilità adolescenziali. Alla fine della lettura si esce sicuramente spaesati e si capisce anche come i criteri e i parametri per entrare in connessione con questi ragazzi siano completamente saltati. A questo punto io ti inviterei a spiegare, ai lettori forti che ci seguono, i nuovi paradigmi che guidano la comprensione del mondo dei giovani da te rappresentato.
Tu vuoi farmi “spiegare” e io, invece, devo deluderti. Cerco di mettere una pezza, come tutti i colleghi che lavorano in contesti non semplici quali, ad esempio, scuole di provincia o istituti professionali, a un disagio giovanile che a volte è così evidente da farmi vergognare della mia incapacità di fare qualcosa se non ascoltare e, in punta di piedi, condividerne un po’. Non è semplice entrare nella vita delle persone, non ci sono passi giusti. Talvolta le uova che proviamo a non calpestare si rompono comunque o le situazioni che proviamo a smuovere restano tali e quali, inamovibili, non raddrizzabili. Quel che possiamo fare, credo, è mostrarci sempre lì per loro, per il tempo che ci è concesso. Non negarci, non mostrarci come burocrati interessati solo al programma o al voto. Non giudicare troppo i loro gusti terribili, il loro strano mondo. Ti ribadisco: ascoltarli. Prenderli e prenderci in giro. Essere presenti ed essere fermi, anche nel rimprovero o nella sanzione. Far loro contemplare la possibilità del fallimento, contestualizzarlo, analizzarlo, circoscriverlo per comprenderlo meglio e, quindi, metterlo in prospettiva per poterlo oltrepassare con un altro tentativo. Possiamo domandare loro “Come stai?”. Sembra una banalità, ma invece avere qualcuno che ti si avvicina e ti chiede “Come stai?” non è banale e può essere importante. Io lo ricordo, le rare volte in cui mi è capitato. Ed è bello quando i ragazzi lo chiedono a noi: ti riempie, ti dà la sensazione che ci sia qualcosa di salvo.
Buona Lettura di ” Il cuore dell’uragano” di Alfredo Palomba.
Antonello Saiz