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Paola Barbato anteprima. La torre d’avorio

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La torre d’avorio di Paola Barbato per Neri Pozza, nelle librerie dal 29 ottobre, è un thriller psicologico con protagonista una donna affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura che ha avvelenato il marito e i suoi due figli. Questa patologia porta infatti il soggetto a far ammalare le persone che ama per poi salvarle e ricevere attenzioni su di sé per le cure e le attenzioni date. Dopo aver scontato la detenzione in un’apposita struttura sanitaria, a lei, Mariele Pirovano, è stata cambiata l’identità ed è divenuta Mara Palladini. Ora vive in totale anonimato in una località protetta dove dovrebbe dimenticare la Mariele che fu e che commise il reato: quella donna non deve più esistere. O almeno di questo tutti vorrebbero convincerla, ma lei ha la certezza di non potersi fidare di se stessa e per questo ha costruito nella sua abitazione una quotidianità che la tenga efficacemente lontana dal mondo, recludendosi da sola per impedirsi con ogni mezzo di poter nuocere ancora, proteggendo in questo modo se stessa e gli altri. Si imprigiona tra una lunga serie di scatoloni impilati e numerati strapieni delle sue memorie catalogate in modo ossessivo mentre osserva il mondo esterno attraverso alcuni buchi di una tenda, attraverso l’unica finestra che non ha ostruito. Mara non prova sofferenza per aver avvelenato la sua intera famiglia né avverte rammarico o sensi di colpa per il suo drammatico gesto, motivo per cui è certa di non essere guarita e che lo Stato e i medici con lei abbiano fallito:

Aveva sempre avuto un’idea propria di cosa fosse una Torre d’Avorio. Nell’immaginario collettivo, si tratta di una struttura inaccessibile edificata utilizzando materiale pregiato. Mara però non si levava dalla testa che l’avorio derivasse dalle zanne degli animali, e che quindi la Torre, di fatto, fosse costituita da denti. Era un’immagine ripugnante, trovarsi chiusi in una bocca che avrebbe potuto iniziare a masticarti in qualunque momento. Esattamente la condizione in cui voleva stare per il resto della vita”.

In quell’appartamento, un giorno, una macchia di umidità sul soffitto scardinerà ogni suo schema mentale e la obbligherà a uscire dal labirinto che si è creata, scappando via veloce quando, nel piano superiore, lei stessa scoprirà un cadavere che intuisce subito essere morto per avvelenamento: sa che di questa morte accuseranno lei, l’Avvelenatrice di Sestri Levante, nome con cui all’epoca dei fatti era passata alle cronache.

Questo romanzo di Paola Barbato, per il tipo di scrittura e di ambientazione di cui si serve e per la peculiarità dei suoi personaggi, ha la capacità di appropriarsi della mente del lettore sino ad arrivare a possederne i pensieri, assorbendolo a un livello così totalizzante nella narrazione da farlo proseguire quasi smarrito tra le pagine. Difatti, mentre l’autrice persevera nell’intento di ingolosirlo con melliflue indicazioni, illudendolo di continuo all’idea che solo lui, unicamente lui con il suo sguardo attento, saprà disvelare il giallo che gli si aggroviglia dinanzi, lei è già riuscita a impigliarlo, a farlo suo, in una rete a maglia fitta fitta che lo sospinge, suo malgrado, nei cunicoli più neri e perversi della mente umana. Quando infine egli stesso, il lettore, si renderà conto del proprio livello di coinvolgimento, non potrà fare altro che sbarrare gli occhi e trattenere il fiato perché di quelle sensazioni non saprà più liberarsi. Diverrà parte attiva e indispensabile della scena, senza più difese, senza più resistenze.

Le vicende corrono rapidissime tra un avvenimento e l’altro mentre contemporaneamente emergono i pensieri più reconditi di Mara – e delle quattro donne che avevano condiviso con lei gli anni di reclusione nella Rems con cui torna in contatto durante la fuga, ciascuna di esse con una storia spaventosa e tragica alle spalle – pensieri che fanno emergere paure ancestrali e lati oscuri e indicibili della mente umana, ponendoci davanti alla inevitabile presa di coscienza che il male è parte integrante di ogni essere umano e potrebbe rivelarsi all’improvviso con gesti inconsulti davanti ai quali ci troviamo impreparati. Non necessariamente manifestandosi contro chi si ritiene presumibilmente responsabile del nostro disagio interiore, piuttosto come incessante accumulo di situazioni distorte e sentimenti invischianti che, come goccia che scava la roccia, hanno creato nell’inconscio un buco enorme e lo hanno colmato di pece nera che ribolle silente. E il tempo di un’esistenza intera potrebbe non essere sufficiente per riconoscerne la presenza e prevenirne la distruttività, un tempo utile per poterlo osservare e ripulire da ogni stortura e aberrazione prima che agisca, a dispetto di ogni razionalità. Il nero è lì e ribolle indisturbato.

Eri sua madre! Dovevi salvarla! DOVEVI SALVARLA! ≫

Chiara Gilardi

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Osservò prima il piatto, poi il tavolo in fondo al settore F, quindi la sedia. Troppe cose in quello spazio, se voleva portare la scala il piatto andava riportato nel settore B. Conteneva uova strapazzate, un mestolo di lenticchie e una zolletta di zucchero che si infilò subito in bocca, sgranocchiandola. Avrebbe mangiato il resto in un altro momento. Girando su se stessa, passò nello spazio angusto che i due lati della Torre nel settore F le lasciavano. Posato il piatto nel settore B, affrontò il percorso. Cercava di non farlo troppe volte al giorno, perché, per quanto stesse attenta, rischiava di sfiorare le scatole. L’appartamento era di centodieci metri quadri, di cui attualmente, compresi bagno e cucina, solo sedici calpestabili. Lungo tutte le pareti, a partire dal disimpegno dell’ingresso, attraverso il corridoio, nelle tre stanze e nello sgabuzzino, c’erano file di scatoloni bianchi, uno sopra l’altro, da terra sino al soffitto. A ridosso di ogni fila, ne era stata addossata un’altra e, nei punti più larghi, una terza. Aprendo la porta, l’impressione era quella di trovarsi davanti una muraglia di enormi mattoni bianchi.

Gli scatoloni non erano trattenuti da cinghie né legati gli uni agli altri, semplicemente i più leggeri poggiavano sui più pesanti, in ordine decrescente. Un leggerissimo decentramento calcolato li manteneva in equilibrio, purché nessuno li urtasse. Dopo l’ultima ridistribuzione delle scatole, Mara si era resa conto che, se solo avesse messo su peso, pancia o fianchi, non sarebbe più riuscita a passare senza correre il rischio di toccarle. Perciò le era vietato ingrassare, impresa difficile visto che si muoveva pochissimo e solo all’interno del percorso. Aveva preso in esame l’idea di uscire più spesso, magari due volte alla settimana, camminare per qualche chilometro. Ma da cinque anni, salvo rarissime eccezioni, usciva solo tra le due e le tre di notte, e passeggiare a lungo per Milano a quell’ora, da sola, non era prudente. Non che temesse aggressioni, piuttosto qualche tipo di malessere o incidente. Avrebbe potuto risvegliarsi a giorno fatto, ancora là fuori, alla luce del sole. O, peggio, in ospedale. Aveva ripiegato quindi su un razionamento del cibo, niente di drastico, si era scaricata un po’ di tabelle, aveva acquistato online una bilancia col body scan e stabilito che per nessuna ragione doveva superare i cinquantacinque chili.”

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Paola Barbato, La torre d’avorio, Neri Pozza, pp. 416, euro 20,00, e-book euro 9,99.

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