Gerardo Innarella nasce nel 1982 a Napoli e vive a Ottaviano fino al 2009, anno in cui si trasferisce a Pavia per lavoro. Insegnante di Lettere al Liceo e classicista di formazione, nel 2012 si diploma in recitazione presso il teatro Fraschini di Pavia e fonda la compagnia teatrale Tra il dito e la Luna. Nel 2017 pubblica la raccolta Veglia per una tigre e altri corti teatrali (Prospero Editore), contenente alcuni dei copioni portati in scena con la compagnia. Nel corso degli anni approfondisce gli studi di scrittura, avviati nel 2007 in un Master di secondo livello in Letteratura, Scrittura e Critica Teatrale presso L’Università degli studi di Napoli Federico II. Frequenta laboratori a Napoli, presso il Teatro Nuovo, e a Milano, con ATIR – Teatro Ringhiera, Belleville Scuola di scrittura e Civica Scuola Paolo Grassi. Suoi racconti appaiono nelle antologie Padre, padri… – Caratteri di donna e di uomo (Ibis Editore, 2019) e Sussurri (Graphofeel, 2022). Nel 2024 pubblica il suo primo romanzo, Per amore di un’ombra, edito da Longanesi.
Mario Schiavone
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Sei un valido autore di storie immaginate per i libri, e di drammaturgie per la messa in scena teatrale: quanto materiale del tessuto esistenziale trasfiguri per le tue storie, quanta (ulteriore) finzione vorresti riporre nei dispositivi narratologici e drammaturgici che metti in campo?
“Finzione” è una parola che mi suscita due diverse sensazioni, una di asfissia per il legame con “fiction” e le sue accezioni da sceneggiato all’italiana, l’altra di imbarazzo per l’accostamento al titolo della più celebre raccolta di Borges: insomma, non è una parola che amo, pur riconoscendone nel significato etimologico la sinonimia con “invenzione”. Ecco però che invenzione, da invenio (trovare), mi piace di più, per lo meno mi ci sento più a mio agio, perché in questo senso la scrittura veste il senso di ricerca, che può svolgersi dentro e fuori di me. Hanno in comune, le storie che già mi appartengono con quelle che ancora non conosco, un bianco misterioso. Non inizierei mai a raccontare una vicenda se già ne conoscessi ogni singolo risvolto: in questo senso, anche il materiale autobiografico deve richiedermi uno sforzo di invenzione, una ricerca per capire almeno come raccontarlo a me stesso. Naturalmente non parlo di terapia, ché è faccenda ben diversa dallo scrivere per gli altri. Mi è capitato di scrivere di me, ma, per citare Antonio Latella, regista-drammaturgo tra i più notevoli in Italia e che ho avuto il piacere di intervistare qualche anno fa per la rivista Birdmen Magazine, “una storia non può essere raccontata così com’è”; men che meno se è una storia personale, aggiungo io.
Nel tuo romanzo d’esordio (Per amore di un’ombra – Longanesi, 2024) hai immaginato un protagonista (napoletano) che rispecchia (anche) i tratti di alcuni dei perdenti tipici della narrativa nord-americana (quelli dello Zio King su tutti, ma anche altri riconosciuti Maestri come Ray Bradbury e Richard Matheson, a citarne solo alcuni qui e ora). Come hai lavorato al personaggio chiamato Flaps: quanto hai studiato per ricavare il suo background e i suoi conflitti (endotici ed esotici) ben congegnati ai fini del plot?
Bradbury mi piace molto, ma molto ha influito sul mio modo di scrivere, più che la sua narrativa, il saggio Lo zen nell’arte della scrittura: questo libricino, dal titolo poco accattivante, trasuda invece un amore per le storie che è quasi commovente nella sua semplicità, per il gusto continuo di pescare (soprattutto) dall’infanzia, paure e suggestioni, ossessioni e fantasie, come se quella fase della nostra vita fosse una banca dati pressoché inesauribile. Di Flaps all’inizio sapevo solo del suo amore per i balocchi, una passione che comprendevo benissimo, ma che subito si esponeva allo stigma del mondo esterno (“ma te ne stai sempre per conto tuo?” – “esci ogni tanto!” – “così non crescerai mai”) e quindi a tutta una serie di conflitti tanto più sfidanti quanto maggiore sarebbe stato l’integralismo del protagonista. E Flaps è, a tutti gli effetti, un integralista, che non accetta compromessi. Facile per un ventenne all’Università, difficilissimo per un bambino che cresce nella provincia vesuviana a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Ai limiti dell’impossibile, se è costretto, come lui, a farlo senza la mamma.
Quanta fatica quotidiana ti costa scrivere di personaggi che trovano l’inferno e la pace attraverso complessi legami umani?
Nel caso di Per amore di un’ombra il processo qualche volta è stato doloroso, visto che si tratta di una trasfigurazione della mia storia personale. Non esiste nel libro un singolo evento effettivamente autobiografico, ma ho tentato una ricostruzione chirurgica delle dinamiche emotive. Più in generale però, nelle altre cose che scrivo, sono assai meno indulgente. Per dirla con Artaud, mi sento più vicino al principio di crudeltà, che se non altro mi consente di osservare le reazioni dei personaggi a un mondo del tutto ostile e illudermi che se ce la fanno loro posso riuscirci anch’io. La fatica vera, quando si scrive, non sta tanto secondo me nel mettere in relazione i personaggi, quanto nel far succedere le cose. “Trovare gli eventi” diceva un mio insegnante alla Paolo Grassi. Ecco, quello è molto difficile. In Stasera si recita a soggetto, verso la fine, Pirandello mette in scena una donna disperata dopo aver subito l’ennesimo abuso da parte del marito geloso e, rimasta sola con le figlie, recita Il trovatore, emblema delle sue illusioni giovanili, fino al parossismo e alla morte per crepacuore. Oltre al riverbero metateatrale e alla letale smania di protagonismo, qui mi sembra di cogliere l’estremo tentativo di una madre di salvare almeno le sue figlie, mostrando (e non raccontando) nel teatro una via ancora possibile. E questo è un evento, a mio avviso, di altissima qualità drammaturgica, perché sulle relazioni getta una luce inaspettata. Insomma, molti sono in grado di far morire di dolore una donna davanti ai propri figli, pochissimi di farglielo fare recitando Il trovatore.
In quanto drammaturgo scrivente, quali sono i tuoi Maestri contemporanei della parola scritta che vedi come punti di riferimento?
La parola “maestro” ha per me un valore religioso, nella speranza di non esaurire anche quest’ultimo lumicino di fede. Da insegnante non posso che credere tantissimo nel rapporto maestro/allievo, che però a mio avviso può essere tale soltanto nella pratica quotidiana. Mi spiego. Credo che, perché un maestro possa esercitare sull’allievo una reale influenza, i due debbano frequentarsi per un tempo prolungato, se non ogni giorno, almeno ogni settimana, per non meno di un anno. In questo senso, nessuno tra quelli che considero miei maestri è propriamente uno scrittore, ma più spesso un regista, un attore o un docente di narratologia. Per capirci, io ho studiato per un anno con Enzo Moscato, autore di riconosciuta grandezza, ma da essere umani di quella levatura, più che apprendere, puoi solo rubare, magari uno sguardo obliquo o una stortura della prosodia: difficilmente acquisirai un metodo.
Al di là degli autori che amo, e che in qualche caso hanno anche avuto la generosità di scrivere di scrittura (oltre al già citato Bradbury, penso a Carver, o a Cortàzar, che per me è stato il più grande di tutti), forse il libro che ha esercitato su di me l’influenza più potente è stato Il lavoro dell’attore su se stesso di Stanislavskij, che oggi mi sembra un manuale ancor più utile per i drammaturghi che per gli attori e per giunta è scritto come un romanzo di formazione, in cui il protagonista deve misurarsi col “Macrocompito” della creazione scenica, che lo espone a sfide tremende e precisissime in cui ogni volta è in gioco il suo destino di attore squattrinato: un viaggio dell’eroe in cui l’eroe è il più comune degli sfigati.
Che rapporto hai con la fotografia? E quali sono i tuoi autori preferiti di questo medium narrativo?
Non ci capisco niente di fotografia. Quando, dopo un film, qualcuno comincia a parlare di fotografia, smetto di ascoltare.
Ogni scrittore immagina un lettore ideale. O forse no. Ma ti domando: non parlarmi del lettore ideale, raccontami invece del lettore mancato, quello che non vuole leggere a ogni costo nessun libro, e al quale vorresti far scoprire le meraviglie del gesto della lettura: quel tipo di lettore lì come è fatto, come lo immagini?
Lo immagino giovane, ben vestito, che fa la spesa tutti i giorni e si gode la pensione, una persona comune di tutte le età. Perdona la boutade, ma il fatto è che i lettori mancati sono le persone che conosco meglio. Se penso ai miei famigliari, ad alcuni degli amici più cari, passando per la maggior parte dei miei alunni, difficilmente riesco a visualizzarli con un libro in mano, e questo ha sicuramente contribuito a formarmi in testa una certa idea di Letteratura. Per amore di un’ombra è dedicato a mio padre, persona di grande acume, ma anche di profonda avversione per l’oggetto libro, eppure io volevo a ogni costo scrivere in modo che lui potesse seguire la storia e coglierne le sfumature. In uno slancio di immodestia, potrei citare Dante e Manzoni, che pur di parlare a un pubblico più ampio sono arrivati addirittura a inventarsi una nuova lingua. Tornando sulla terra e al mio piccolo romanzo, ho cercato in ogni riga di instaurare un contatto, come gli alieni di Arrival, nella scelta delle parole, nel ritmo della sintassi, nella disposizione degli eventi che compongono l’intreccio. Ho pensato che anche un lettore fin lì mancato potesse ricredersi, ritrovando delle dinamiche che spesso attingono dal cinema, o dalle serie, di cui sono vorace spettatore, ma al contempo riscoprendo nella pagina scritta il piacere dell’immaginazione o il tempo per una riflessione più paziente. Per la cronaca, papà il mio libro non l’ha ancora letto.
Rispetto al tuo lavoro di insegnante che prende molto tempo della giornata, come (rubi alla vita) e impieghi il tempo quotidiano dedicato alla lettura e alla scrittura di storie?
Mi viene in mente quel passaggio in cui Carver, ne Il mestiere di scrivere, racconta l’influenza che ha esercitato su di lui, giovane scrittore, la presenza dei figli. Lui, come tutti sanno, se l’è cavata scrivendo solo racconti brevi, formula più conforme ai ritagli di tempo; e devo dire che ammiro molto quelli, tra i miei colleghi insegnanti, che scrivono romanzi con regolarità. Io sono piuttosto lento, invece, e per questo ho sempre sentito la forma breve assai più nelle mie corde. Quando il tempo vita-lavoro sopravanza così nettamente quello della scrittura, accade quello di cui parla Carver, l’influenza. Non potendo sottrarre tempo a un lavoro in cui credo molto, lascio che sprazzi di quel tempo entrino nella scrittura, aprendo una specie di doppio canale energetico, il primo totalmente devoto alla relazione con gli alunni, l’altro che in senso opposto assorbe il materiale (emotivo, ideale, spesso drammaturgico) da loro e dal me stesso in relazione con loro, un materiale che spesso confluisce nella stesura di un nuovo racconto. Una perifrasi assai complessa e probabilmente incomprensibile per dire che prendo appunti. Ecco, sì, prendo molti appunti.
Da inventore di mondi, quale tipo di storia non affronteresti mai sulla pagina?
Qualche anno fa ti avrei risposto “una storia vera”. Non essendo un grande appassionato di documentari o biografie, pensavo che anche la mia scrittura dovesse familiarizzare solo con un’immaginazione che ruba qua e là i suoi puntelli di realtà. In parte la penso ancora così, ma l’esperienza di lettore mi ha insegnato (cito per tutti Emmanuel Carrère) che anche da una storia verissima possono fiorire pagine di Letteratura eccelsa. Uno degli ultimi racconti che ho scritto nasce dalla testimonianza di un autista di scolaresca durante un viaggio di istruzione, ma credo che ad attrarmi, più che i fatti, siano stati gli spazi bianchi di quella narrazione.
Come hai scoperto la passione per la lettura? E quella per la scrittura?
Devo quella per la lettura al compianto Michele Ranieri, mio insegnante di Filosofia del liceo: a quel tempo ero piuttosto stupido e non me ne resi conto, ma uno dei libri che ci aveva consigliato, L’uomo che fu giovedì di Chesterton, era evidentemente qualcosa di assai diverso dall’idea che fin lì mi ero fatto della Letteratura. Quando poi ho cominciato a leggere con maggiore continuità, verso i venti, ventun anni, quella storia così strana ha come germogliato spingendomi fuori dal terreno, verso quelli che sarebbero diventati i miei autori di riferimento.
Quella per la scrittura credo invece che sia stata una riscoperta. Da bambino avevo una passione profonda per le storie, non tanto per libri e film, quanto per quelle che riuscivo o credevo di inventare quando giocavo da solo. Poi sono cresciuto e la mia immaginazione se la sono mangiata i videogiochi, mentre a scuola, benché fossi un buon alunno, detestavo i compiti scritti perché non accadeva mai che gli insegnanti mi chiedessero qualcosa di cui davvero mi importasse. All’università, si sa, non si scrive fino alla tesi, ma proprio mentre lavoravo a quella magistrale, nella bibliografia rientrava anche Il mito di Edipo di Bettini e Guidorizzi, in cui, accanto alla trattazione accademica, era presente anche una riscrittura dell’antica storia, così mi convinsi di poterlo fare anch’io, e inserii nella tesi un racconto in cui Edipo era una sorta di hacker alle prese con un virus informatico. Racconto terribile, probabilmente, non lo rileggo da anni, però scrivendolo mi riconciliai a quella passione infantile, che è ancora il primo pungolo ogni volta che mi accosto a quella che Foster Wallace chiama “la dura sedia”.
Quale legame intercorre tra i tuoi appunti da drammaturgo, a proposito dei teatri con cui collabori, e i tuoi appunti da scrittore, a proposito delle vite dei personaggi letterari che tieni in vita (o uccidi) sulla pagina?
Lavorando in compagnia, o con gli allievi dei corsi di teatro, il vantaggio è sempre stato poter disporre di corpi già esistenti per modellare i personaggi, che poi, durante le prove, finivano per modificarsi in maniera inaspettata. Nella solitudine della prosa, benché tu sia libero di raccontare praticamente tutto, o forse proprio per questa ragione, rischi di ritrarre sulla pagina solo esangui figurine idealtipiche. Mi torna in mente un esercizio consigliato da un altro insegnante della Grassi, che ci esortò a spiare uno sconosciuto per modellare un personaggio che fosse anni luce lontano da noi. Dal momento che tutto il mondo è un palcoscenico, capisci quanto diventano importanti gli appunti di cui sopra?
Provo a risponderti anche in merito alla vita/morte dei personaggi. Credo che la morte sia finora il cardine di tutta la mia scrittura, ma ricordo di aver realizzato una sola scena, peraltro molto breve, in cui si assiste direttamente alla morte di un personaggio, e sul palco lo interpretavo io. Ecco, qui forse c’è un centro: scrivo spesso della morte e delle sue conseguenze, ma non ho cuore di veder morire qualcun altro, e relegando nell’obscaenum le dipartite altrui, mi concedo un palco su cui ogni volta va in scena la mia.
Stai lavorando a un nuovo libro? Se sì, racconteresti ai lettori di Satisfiction quali temi affronta e perché hai l’esigenza di narrare proprio la storia a cui stai lavorando?
Tra i progetti in cantiere quello a cui tengo di più in questo momento è una raccolta di racconti. Insieme a un amico editor, sto riguardando alcuni di quelli scritti nel corso degli anni, in cerca del filo che possa cucirli insieme nella trama di un libro. Al momento credo che questo filo si stia avvolgendo attorno alla sfera sessuale, che su di me esercita una misteriosa forza di attrazione e repulsione, tra le poche che davvero possono indirizzare la vita delle persone. In queste storie racconto l’inadeguatezza di chi si innamora di una persona più giovane, la censura delle pulsioni, l’ipocrisia di chi ama perché è giusto, tutte cose che, oltre che sulle singole esistenze, secondo me hanno ripercussioni inconfessate anche sul comune sentire. Il mythos però, il racconto, non è altro che questa cosa qui: raccontare quello che non si può dire.