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Annie Ernaux anteprima. La scrittura come un coltello

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La scrittura come un coltello” di Annie Ernaux con Frédéric-Yves Jeannet (L’Orma Editore, 2024 pp. 168 € 18.00), nella traduzione di Lorenzo Flabbi, esce nelle librerie il 19 novembre. Una poetica e interessante corrispondenza tra lo scrittore Frédéric-Yves Jeannet e Annie Ernaux, nella pungente intensità dell’ordine del discorso, sostenuto nella prospettiva di un dialogo valido e creativo intorno all’arte stimolante della conversazione e della scrittura. Il libro raccoglie un colloquio da lontano, condiviso via mail, ma che avvicina la visione degli autori nella percezione dell’attualità interiore degli argomenti e del suo sviluppo interpretativo nella comprensione di ogni ragionamento. Un itinerario intellettuale in cui si afferma l’intelligenza valutativa e l’abilità essenziale di raccontare le idee e la sostanza speculativa, attraverso l’acuto strumento di comunicazione nelle domande e di confronto nelle risposte. L’opera divulga l’autorevolezza evocativa del pensiero critico, indica la risolutezza intuitiva e l’affilata perspicacia nel principio eloquente della scrittura di Annie Ernaux, contiene l’elemento suggestivo della conoscenza culturale. Nobilita la difesa e la libertà delle confessioni personali, nelle pagine pervase dal profumo del vissuto, segue l’itinerario dell’orizzonte letterario, artefice di una narrazione che è dichiarazione appassionante e commovente dell’istintiva autenticità e dell’erudizione lungimirante ed esplicita. Annie Ernaux consegna alla memoria universale episodi di un percorso autobiografico che si snoda lungo il lavoro equilibrato e consapevole dell’elaborazione stilistica, ritrova l’angolatura esplicativa e ravviva l’osservazione dell’intento artistico nella fenditura tagliente di una lama significativa. Restituisce la capacità di descriversi nella relazione con la vita, si allontana dall’intelaiatura formale per concentrare e stringere l’essenza delle tematiche, nella semplicità e nella spontaneità, senza deviazioni, consegna un’eredità emotiva mossa dalla responsabilità del valore etico e rivoluzionario della letteratura.

La scrittura di Annie Ernaux è uno strumento acuminato che ha la finalità di sviscerare la verità, come nel procedimento di una narrazione documentaristica, ricompone con precisione rigorosa, la cura editoriale laconica e incisiva, approfondisce l’immediatezza auto affermativa. Il registro evolutivo del libro rimanda a una lettura introspettiva sociologica oltre la schiettezza delle opinioni e l’esplorazione singolare e ponderata del tessuto sociale, culturale e del suo personalissimo sguardo sul mondo. Capire com’è nata la scrittura di Annie Ernaux vuol dire affrontare un viaggio sulla costruzione dell’identità, nella capacità di un codice distintivo che sa influenzare la percezione dell’universo e dimostrare le versatili esperienze umanistiche, adottare un’emancipazione nei confronti dei canoni classici della letteratura per conquistare una consonanza assoluta, spoglia di condizionamenti, tra vita e scrittura, ricordare, con incrollabile onestà, la funzione legittima dell’impegno istruttivo in tutto ciò che abita il tempo e la tangibilità delle cose, dentro una scrittura del reale. “La scrittura come un coltello” indaga l’applicazione penetrante del testo, la volontà di obiettività, la modalità chirurgica, rintraccia un’adesione diretta all’occasione di esistere per recuperare la compiutezza riflessiva, obbedisce al vincolo di registrare e annotare l’insidiosa, rischiosa attitudine al disvelamento del segno grafico. Infatti Annie Ernaux si serve della parola come di un espediente appuntito, corrosivo, capace di lacerare la velatura illusoria della natura umana e ammettere l’inenarrabile. Il volume ricorda l’arma del coltello che intaglia la parete esterna e trapassa nel profondo, orientando il taglio sulla incisione delle ferite, estende la direzione del riscatto nell’esigenza coraggiosa di scavare dentro la vulnerabilità umana, sezionare l’ autobiografia, salvarne la linearità delle scelte, vendicarne con scrupolosa e tenace precisione, la consistenza del linguaggio sulla soglia dell’altrove.

Rita Bompadre

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Per lei la lettura è un prolungamento o un motore della scrittura (o viceversa)?

Il mio primo riflesso sarebbe di risponderle di no. Poi, riflettendoci, sento che dovrei aggiungere «non più». Perché la lettura ha avuto un ruolo di forte incentivo in un periodo della mia vita, precisamente tra i venti e i ventitré anni, quando pensavo di scrivere, stavo iniziando a farlo, e lavoravo su quel testo strano di cui le ho parlato, che sarebbe poi stato rifiutato dall’editore Seuil. A vent’anni ho intrapreso studi letterari per «restare nella letteratura» in ogni modo possibile, conoscerla, insegnarla per guadagnarmi da vivere, praticarla io stessa. Da qui, due tipi di letture: quelle necessarie per superare gli esami – spesso facendomi coinvolgere molto oltre il necessario, soprattutto con Flaubert – e la produzione contemporanea. È a quest’altezza che mi abbono a «Les Lettres françaises», prendo in prestito dalla biblioteca di Yvetot, dove ora oso muovermi con maggior agio, Le gomme di Robbe-Grillet, Une curieuse solitude di Sollers e poi Lawrence Durrell, all’epoca molto in voga, e così via. Col senno di poi, mi rendo conto di quanto fossi completamente immersa – a differenza di ogni altra studentessa di mia conoscenza – in quello che all’epoca mi appariva come un altro mondo, assolutamente superiore: quello delle essenze, al quale volevo accedere anch’io scrivendo (anche se non avevo ancora letto Proust – ma Flaubert sì, tutto, compresa la Corrispondenza).

Poi c’è un grande vuoto, una sospensione, sia di lettura sia di scrittura; insegno francese, dalla prima media all’ultimo anno degli istituti tecnici, e non mi resta il tempo di leggere «per me», cioè per scoprire autori contemporanei o classici che non ho ancora letto e che non utilizzerò in classe. Il mio desiderio di scrivere permane, sì, ma distante. Riprende poi all’improvviso, bruscamente, con un contenuto chiaro, alla morte di mio padre. Ne abbiamo già discusso. Lo realizzerò nel 1972-73, dopo aver attraversato diverse crisi e prese di coscienza che con la letteratura avevano ben poco a che fare. All’inizio del 1972 ero arrivata al punto in cui il mio progetto di scrittura era diventato una questione di sopravvivenza, qualcosa da fare a tutti i costi. Con la consapevolezza, l’orgoglio, che non era mai stato fatto prima. Perché quanto avevo da dire (per farla breve, il passaggio dal mondo dominato al mondo dominante tramite gli studi) non l’avevo mai trovato espresso da nessuna parte, non come lo sentivo io. E c’era un libro che, in un certo senso, mi autorizzava a intraprendere quel percorso di svelamento, che mi spingeva, più di qualunque testo strettamente letterario, a trovare il coraggio di affrontare la mia «storia». Si trattava de Les Héritiers di Bourdieu e Passeron, scoperto quella primavera. Ricordo che un giorno, in una libreria di Annecy, dove vivevo, nel valutare alcuni tascabili per rifornire la biblioteca della scuola mi ero sentita in colpa perché non stavo realizzando il mio progetto di scrittura, ai miei occhi ben più necessario dei romanzi che stavo sfogliando. Se non si ha questa convinzione, d’altronde, non vale la pena scrivere. Ho iniziato Gli armadi vuoti quello stesso anno.

Dopo l’uscita di questo libro, trovandomi all’improvviso esposta a un pubblico – per quanto limitato, e in ogni caso lontano dalla ribalta di Parigi – ho iniziato a leggere molto di più; era come se dovessi instaurare una sorta di dialogo con gli scrittori di un passato recente e con quelli contemporanei, forse anche per trovare una mia collocazione, dato che non avevo affatto chiaro cosa rappresentasse il mio libro. Così, ho letto l’intera opera di Céline, di cui conoscevo solo il Viaggio al termine della notte, perché qualcuno aveva accostato la mia scrittura alla sua.

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