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Adelmo Monachese. Collisioni accidentali

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Sono andato da una psicologa. Okay, ci sono finito per caso, fatto sta che gli altri mi hanno visto andarci quindi vale lo stesso. Sono andato a vedere del teatro sperimentale senza essere parente o coinquilino dell’attore, ho socializzato. Ho coltivato un’amicizia sul luogo di lavoro. Ho fatto sport, almeno ci ho provato. Era molto di più di quanto avessi permesso di entrare nel circuito collaudato della mia vita…”

Quando Carlo Torre fa i conti parziali della sua esistenza, quest’ultima non ha ancora virato. In fondo, perché dovrebbe? Il nostro prof è uno che fa i compiti a casa, cioè li corregge (qualche volta li mangia, per la verità, perché c’è anche un corso di cucina). Forse è un po’ sdraiato, obietterebbe qualcuno, ma tutto sommato – dacché ne dica nella succitata pagina 56 – è uno che ancora ci crede nella fantomatica missione educativa. E questo malgrado abbia alunni che sono clienti, anche piuttosto ricchi, piuttosto viziati, piuttosto svogliati – c’è il figlio del mobilificio, il figlio delle spedizioni, e così via, di sineddoche socio-economica in sineddoche.

Scuola privata, quella in cui insegna. Con sponsor (vecchio sogno di morattiana memoria): “Istituto Anassagora – Prestiti agevolati anche senza busta paga e cessione del quinto”. A dirigerla poi, c’è la sua ex moglie: molto ex, poco moglie. E ciononostante, lui ci crede. Quanto meno ci prova. È “un pettinato”, almeno all’inizio, parafrasando Brizzi e il vecchio Alex prima di impazzire per amore (ma sì, “Jack Frusciante” è nelle antologie scolastiche, perché non parafrasarlo?).

Eppure, “questo cambierà, io cambierò”. Anzi lui, il prof. Stavolta citando “Trainspotting”, spaziando in scioltezza da un estremo all’altro perché “Collisioni accidentali” di Adelmo Monachese, uscito per la nuovissima Affiori, è un romanzo umoristico e questo genere narrativo, quando è ben organato, lo permette senz’altro. Lo fa Carlo, il protagonista che narra in prima persona, il docente che rendiconta, planando da Balzac a “Banana Joe”, ammiccando più alla satira che alla comicità – d’altronde, l’autore viene da lì.

E allora, qual è il problema? Il problema è rendersene conto, svegliarsi d’un tratto nei panni di sé stesso e ritrovarsi ostaggio goffo della propria vita. Basta una scintilla, a volte. Nel caso di Carlo però, serve qualcosa in più. Uno strattone. Meglio: un placcaggio.

Il docente appassito tra i banchi scopre per caso il rugby e per caso se ne innamora: non sa bene il perché e non se lo chiede nemmeno. Se un tempo aveva il chiodo fisso per i compiti da correggere, adesso in testa ha solo l’indolenzito terzo tempo con la squadra, tra birre e pacche sulle spalle: ai compiti in classe ci pensa ancora, ma solo perché “c’è sempre bisogno di sottobicchieri”. E pensare che fino a qualche mese prima non beveva neanche più caffè, la sua unica droga, devastato da una gastrite che era più uno stato d’animo: ritrova il piacere dell’aroma arabica, se ne infischia di alunni e preside (con annessa lettera di richiamo), affronta tutto come un pilone della palla ovale, uno che va sempre dritto, faccia a faccia con l’avversario, quale che sia.

È il modo in cui incontra Cristina (e i leggins di Cristina), lanciandosi in quella metà campo ancora da esplorare, per la prima volta intravedendo la meta – e che fa se non si scende nemmeno in campo, se si viene convocati solo per portare l’acqua ai compagni di squadra. Quello che scopre Carlo, alla fine, ha senso. La sua “metafora in chiave rugbistica della vita”, come dice, corrisponde a verità: “arrivi alla partita dopo aver riprovato schemi e movimenti ma poi trovi la buca nel campo, l’avversario più furbo, il sole in faccia e il vento contrario, la pozzanghera proprio nella tua traiettoria di corsa”.

Così è il rugby, così è la vita.

Alessandro Galano 

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