Autobiogrammatica è il nuovo progetto d’immagine e scrittura di Tommaso Giartosio edito nel 2024 per l’edizioni minimum fax nella collana Nichel. Autobiogrammatica mostra che la scritturapagina può farsi particella gemella di campagne, passaggipaesaggi, visioni e citazioni, la passione per gli animali, l’egocentrismo dell’età evolutiva, il trapasso come cambiamento radicale in vita che veste la narrazione del passato e non lo rimuove ma lo riprogetta sulla pagina e fa contorno al desiderio della memoria: «Il progetto è nato un quarto di secolo fa, la scrittura è avvenuta negli ultimi cinque anni circa. Il centro del mio scrivere è sempre stato la memoria dell’origine.»
Autobiogrammatica ci scrive e ci modella come lettori, come lettrici, fa percepire il transitare dell’io che rammenta, del desiderio che riscrivericorda, e pur senza egoriferirsi, pur dicendo di sé, della sua storia, l’autore ci conduce nell’ascolto del sentire che «è un momento felice, se un segmento di tempo può provare sentimenti.»
La persona che riscrivericorda il suo proprio passato famigliare, senza ingabbiarsi nel narcisismo, riesce a farlo «perché scrivere è prima di tutto capire universi mentali diversi dal nostro. (E poi, per corollario, capire anche il proprio, che è anch’esso diverso e misterioso).» E tra le righe inconsce la classe diventa acqua purificante, si scioglie e lascia andare barriere: eccoci nella diagonale del desiderio condiviso, nel giogo di parola di cui ci si libera con la suoneria dei ricordi, dei richiami, ma anche dei saper non sapere e «l’io si riflette infinite volte ma diventa anche sempre più piccolo e irrilevante.» Tommaso Giartosio è un desiderante che fa della propria singolarità quantica una comunione carnale trasvolante la pagina: è entanglement, legame profondo di superfici anche molto distanti, anello tra fonia e scrittura che evoca il parlottio onirico, è descrittura evocale, inconscio esterno dove può insistere, a tratti, un’autocensura che, a differenza della censura, «è preziosa, ti segnala un non detto che raramente è banale.» Chi scrive Autobiogrammatica è anche ascolto e alfabeto di sangue, di ragionamenti e emozioni, dei tuttitutte nel microcosmo che ci riguarda, scrivere che fa e oltrepassa lo statuto di mestiere, o di contestazione ideologica: quando è scritturapoesia «stiamo andando a toccare ciò che non sappiamo e non capiamo, ed è solamente questo a fare delle nostre pagine poesia.»
Autobiogrammatica punteggia il flusso spaziotemporale, vorticante musica di superficie alfabetoimmaginale e profonda epidermide di nomi, è materia di accordi nei transiti singolari, universali…
Gianluca Garrapa
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Qual è stata la genesi del tuo libro e perché hai desiderato scriverlo?
Il progetto è nato un quarto di secolo fa, la scrittura è avvenuta negli ultimi cinque anni circa. Il centro del mio scrivere è sempre stato la memoria dell’origine. Il primo libro, Doppio ritratto, raccontava un legame importante nell’infanzia, e il suo nesso con il divenire scrittore. L’O di Roma era anche un tentativo di riappropriarsi della città natale. Come sarei felice, una raccolta di versi, collegava gli amori vissuti da adulto alla storia di mio padre. Anche libri apparentemente meno personali in fondo insistevano su questa dimensione eziologica: La città e l’isola sulla preistoria dell’identità gay, Tutto quello che non abbiamo visto sul nostro dimenticato passato coloniale. Quanto al desiderio di cui mi chiedi: mettiamola così: non è che ci fossero molte alternative. Potevo tenermi tutto nella testa, e stare fermo a fissare il muro. Allora meglio scrivere, no?
Quando scrivi, godi?
No, non direi che godo, se prendiamo come riferimento il godimento fisico. C’è la fatica e poi, se il risultato è esattamente quello a cui miravo, un sentimento di intensa soddisfazione. Del resto anche nella fatica alberga un’altra forma di soddisfazione. Tra la prima e la seconda, c’è un punto in cui avviene la scrittura in sé – direi proprio il gesto della mano sul foglio o sui tasti – ma mentre avviene non lo senti come un’operazione, lo fai e basta, non ne hai coscienza. È un momento felice, se un segmento di tempo può provare sentimenti.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?
I passaggi scoscesi sono stati tanti. Per esempio questo, quando il narratore – io – fa una battuta idiota su Salvo Lima, il politico democristiano complice della mafia che poi lo eliminò, e un suo amico siciliano – Vito – si infuria:
“Ora qualcuno dirà che la mia battuta era stupida ma Vito troppo suscettibile. E sarà così. Oppure no. Ci ho pensato per vent’anni e non ho una risposta, solo immagini, centinaia di quelle immagini che sono il modo in cui scopri fin da piccolo che le cose non vanno come dovrebbero. Uomini che si addormentano in macchina, riversi sul sedile della moglie in una grandine di cristallo. Altri uomini che dormono in mezzo al marciapiede solo con un lenzuolino, le scarpe addosso. Altri che portano in giro scatoloni pesantissimi – in sei ci si mettono, o in otto. Oppure un pezzo di autostrada grattugiato come un castello di sabbia dalle onde della notte… Non posso sapere come sia stato per Vito, crescere proprio lì, riconoscendo i nomi delle vie e i negozi, e intanto ti spiegano che è sempre stato così, e poi crescere ancora e piano piano riempire il disegno con nuovi pezzi, sempre più orrendi, mentre ti spiegano che non bisogna parlarne. Ma penso che sia qualcosa che ti arriva dritto addosso, prima frontale e poi a tenaglia, e che ti cambia. Era questo, il sasso che Vito stringeva nel pugno, la materia del suo mondo. E uno di fuori del Sud, che quelle cose le vive di riflesso, questo deve capirlo… Chiara, Antonio, Dario e Carlo un po’ cercavano di calmare Vito, un po’ si sforzavano di farmi capire che il mio era stato uno scherzo di pessimo gusto. Perfino peggio di una battuta su Falcone, perché Falcone era comunque una figura eroica al di sopra di qualsiasi ironia, mentre un leader siciliano corrotto e criminale come Lima bruciava ancora, era una vergogna per tutta la Sicilia; e ridere di ciò che brucia è molto peggio che ridere di ciò che splende.”
Questo brano l’ho aggiunto all’ultimo, perché qualche lettore mi aveva detto – appunto – che la reazione dell’amico siciliano sembrava eccessiva. E lì, non essendo d’accordo, ho capito che per spiegarla dovevo scavare più a fondo, perché scrivere è prima di tutto capire universi mentali diversi dal nostro. (E poi, per corollario, capire anche il proprio, che è anch’esso diverso e misterioso.)
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Forse un labirinto di specchi, in cui l’io si riflette infinite volte ma diventa anche sempre più piccolo e irrilevante. Un posto in cui a volte sbatti contro una parete di cristallo prendendola per una porta, o al contrario quello che sembrava un riflesso si rivela un passaggio.
Che rapporto hai con la censura?
Pessimo. Mi è successo di venire censurato, benché molto di rado, e sono diventato ipersensibile a interventi anche minimi. Ma la censura, meccanica e esplicita, è molto meno
interessante dell’autocensura. Quest’ultima è preziosa, ti segnala un non detto che raramente è banale.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Sono entrambi aspetti secondari dello scrivere. Chiunque scriva sviluppa un certo know-how, per esempio vengono a chiederti di buttare giù una lettera o un appello; ma il vero lavoro di scrittura consiste nell’esatto contrario, nel trovare un modo per spingersi oltre il mestiere.
Quanto al contestare lo status quo, c’è una frase del polacco Adam Zagajewski: “Uno scrittore che tiene un diario lo usa per registrare ciò che sa; nelle poesie e nei racconti mette quello che non sa”. Ciò che sappiamo sono i principi e i valori in cui crediamo, e in base ai quali contestiamo l’esistente: la nostra ideologia, e uso il termine senza alcuna accezione negativa. È inevitabile che formi il substrato di tutto ciò che scriviamo. Tanti capolavori trasmettono anche “messaggi” politicamente validi. Ma quando facciamo poesia (in senso ampio), stiamo andando a toccare ciò che non sappiamo e non capiamo, ed è solamente questo a fare delle nostre pagine poesia.
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Tommaso Giartosio, Autobiogrammatica, collana Nichel, edizioni minimum fax, 2024.