I pescatori ignorano la città/ trascinano sacchi di molluschi /sulle spalle, succhiano gusci interi/ di acqua, iodio, muschi, licheni./ Montano su un ponte di barche,/ come piccoli grilli, uomini neri. (Usano limoni contro il dolore /del fegato, disinfettano il sapore./ Bevono e dopo aver preso il mare/ corrono nelle camere da letto./ Vivono come il plancton in seno/ alle acque – alle donne – al veleno./ Finché dura l’inganno della fame/ fuori da ogni casa si spegneranno/ i grandi sogni, i canti, le praterie/ nel vuoto ostile delle periferie.
Leggere questo intenso lavoro di Stefano Modeo è percepire con i sensi un denso tessuto di suggestioni che spingono a cercare, nelle pieghe di ogni immagine, qualcosa che ci parla di noi stessi . Versi che si divorano senza un attimo di noia , se ci si mette in ascolto di quei suoni tragici e vitali di una parola che scuote e commuove, prende corpo nelle fisionomie dei luoghi , invita a perdersi tra dettagli che uniscono mondi vicini e lontani. Una scrittura “pittorica”, dove fluiscono e si fissano nei colori la grana pastosa del paesaggio tarantino, il mugghiare del mare nei magazzini, il fruscìo delle alghe impigliate alle reti, i profili delle case fatte di rocce, coralli, erosioni, il leggero soffio del vento che spinge minuscole vele lente come coltelli : sacre alleanze elettive in una terra dove si fa presto ad imparare a migrare , a cercare una via di fuga attraverso il mare. Non è forse il mare il simbolo più antico del mistero dell’esistenza? Elemento spirituale, più o meno consciamente ci riporta al movimento ondoso di quell’agire tipicamente umano che oscilla tra desiderio di ancoraggio e ricerca di libertà. Stabilendo un corpo a corpo con la grande potenza dell’elemento naturale, il poeta sente il bisogno di partire per poi ritornare, perché le sue radici si sono ancorate a quelle dell’acero, della vigna, dell’ulivo.
Dove si ode il grande, libero, epico respiro del mare, c’è anche un porto da cui salpare, portando con sé una mappa interiore pronta a riportarlo indietro, lì dov’è cresciuto, dove le parole si dispongono lente, dimorano timide e fanciullesche nella piccola casa costruita sull’albero di ulivo. Parole che rimbalzano sull’immagine frantumata e sbiadita di un bambino che batte i piedi per imparare a nuotare, che respira l’odore dei mandorli, dei ciliegi, del grande albero di acero: Datemi un acero dalle radici profonde/ per i figli di Alfredo venuti a cercare/ lavoro in questi giardini, sulle colline/ fra statue di gesso e limpide fontane./ Che possano qui seppellire suo padre /che possano portargli dei fiori . Datemi/un acero dalle radici profonde nei giorni/ di sole, lontani dal mare, quando si muore.
Il mare, con le sua spuma bianca e le sue infinite variazioni di azzurro, brilla nell’ntera silloge e innesca un’eterna melodia variata in modulazioni che riconnettono vissuti personali alla storia di Taranto, patria di Modeo, così strettamente intrecciata con quella dell’ILVA e della sua produzione d’acciaio.
Taranto è vivace e mossa, la sua vita stradale è euforica; vi spira un’aria esilarante, stimolante, direi cantabile…Vive tra i riflessi in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce. Questo porticciolo orientale, questa popolazione di pesci e molluschi, è uno dei miei migliori ricordi italiani – scriveva Guido Piovene in Viaggio in Italia,( 1957) e quelle stesse immagini vivaci e febbrili che rimbalzano alla memoria, nei versi di Modeo si trasformano in desiderio fremente di vita. L’ ambivalenza vita –morte che la letteratura italiana sin dalle origini accoglie dalla tradizione classica, si accompagna al mare- pericolo e mare-ignoto che intimorisce e respinge l’uomo, ma allo stesso tempo lo attrae e lo sfida con il suo mistero. Saltano sugli scogli come capre,/in tasca la danza di piombi fusi/ in fabbrica per cacciare le spigole./Di profilo la roccia è una tartaruga / Mentre montano sul carapace/ il sangue brucia nei corpi di sale. Almeno due gabbiani arpionano /le carni di un pesce e volano via./ Dalla battigia le madri si sbracciano/ un’eco di voci implora di tornare/ a riva, ché negli scogli al buio/ si annida la rabbia dei cani di Scilla./ Ma loro non cedono al tempo/ che vogliono. Piuttosto/ con un tuffo restano fedeli/ a quella loro limpida sapienza. C’è una sorvegliata e lineare limpidezza in questi versi ma anche lacerazione , pathos impetuoso, armonia degli opposti.
L’atto che governa la parola poetica di Modeo è la ricerca di una nuova mappa da seguire, ma restando fedele ad una promessa salvifica, parlare con la voce di un mondo che privilegia il fare, riconoscere la nostra esistenza aperta alla grande impresa simbolica dell’andare. Coraggio, la neve / ha coperto tutto ciò che poteva nutrirti./ Spegni la lampada allo scrittoio/ ci basti la luce del sole. Proviamo a seguire una nuova mappa/ e se ci perdiamo/ resta ancora una spelonca dove potremmo fare altri graffiti. La sua lingua poetica è piena di energia , non presenta ambiguità di codici, arriva immediatamente con tutta la sua carica di tensione emotiva e simbolica, si fa strada nell’inconscio come una fabbrica di agnizioni senza abdicare all’obiettivo di comprendere dinamiche e metamorfosi di vissuti, desideri e speranze. Modeo si riconosce in una figura ingiustamente dileggiata, ma di grande pazienza e forza (nella sezione: Il segreto di Pulcinella): si disse anche: «È solo un buffone, /perdonatelo. Vive d’invenzione»/ È una difesa, innanzi allo specchio /ognuno teme di vedere sé stesso./ Da questo, chi è capace e si scarcera/ non è schiavo di niente e si smaschera/. In questa sezione della raccolta il registro linguistico si alleggerisce ,assume forme quasi scherzose rimanendo , in realtà , dolorante e tragico nel racconto di un Sud curioso degli ozi come dei rituali che compendiano la libertà e l’amore per la vita .
Per comprendere profondamente la nostra esistenza, allora, bisogna separarsene, oppure entrarci fino in fondo ? Combattere il dolore recidendone le radici, fuggire dalla casa del padre dismettendo ogni valore? Un prato è tuo padre/ olio di ricino e vetro/ per far germogliare/ il padre che ho avuto/ ghigliottinato da un’auto /del padre che ha avuto/ impiccato alla vigna/ nel profondo sospetto/ di uccidere e avere/ vivere tutti nel nome./ Uno scoglio è tuo padre/ sale e limone sulle ferite/ per curare e guarire/ dai frammenti di vite /al fronte negli occhi /il vetro per sostituire/ la linea che esplode/ nel profondo rispetto/ di uccidere e avere/ vivere tutti nel nome.
Sullo sfondo di questa ghirlanda luminosa di immagini, si staglia il profilo di un vagone dove si affollano uomini dagli occhi sfiniti che leggono e dormono abbracciati al sedile. Partire non per abbandonare rassegnati la propria terra d’origine ma per ripensarsi e riconoscersi in quelle radici che rappresentano più il futuro che il passato, nella profonda consapevolezza che la restanza (parola presa in prestito da Vito Teti) è il serissimo gioco della vita fedele alle fughe e ai ritorni. Accorgersi di non sapere nulla/di queste vite che sono restate, /di quelli che vivono sulle spine/in mezzo agli sguardi di tutti./E tra le mura cercare il capo d’un filo/da stringere,/ dove anche un passante/vale qualcosa a condannare sé stessi./La città torna a illuminarsi d’inganni,/fine dell’esitazione: «Dove sei stato,/da cosa sei scappato in questi anni?
Rossella Nicolò