Esiste una formula che prendiamo in prestito dal fumetto seriale americano, usata quando le saghe sono estremamente lunghe e ci vuole un nuovo punto di ingresso per proporle a nuovi adepti. In quei casi si trova stampigliato in copertina una formula tipo: ottimo inizio per nuovi lettori.
Ecco. Da dove iniziare a leggere Romain Gary, questo grande scrittore francese per nazionalità, ma internazionale per portata inventiva?
Conviene suggerire immediatamente titoli come La promessa dell’alba o quel capolavoro di mistificazione e capacità di essere altro che è La vita davanti a sé con cui vince un secondo prix Goncourt sotto il falso nome di Émile Ajar? Abbinarlo al postumo Vita e morte di Émile Ajar oppure a Le radici del cielo o, ancora, a Educazione europea, a Biglietto scaduto, a La notte sarà calma?
Direi che senza stare a soppesarne il valore rispetto alle altre opere di Gary, per un lettore che voglia approcciare il lavoro linguistico e architettonico di questo autore, i sette testi raccolti in Tempesta (pagg. 208, € 15,00) appaiono come il punto di partenza ottimale.
Il volume esce oggi per Neri Pozza editore, che cura tutta l’opera di Romain Gary in Italia e propone testi che vanno dal 1935, anno in cui Gary esordisce sulle pagine della rivista “Gringorie”, fino a circa il 1970. Attorno a questa data si possono collocare All’ultimo respiro e Il greco, entrambi scritti in inglese che, come rammenta nella nota finale l’editore francese “non sono racconti, ma bozze inedite di romanzi incompiuti, conservati negli Archivi del Fondo Romain Gary in deposito presso l’Institut Mémoires de l’Édition Contemporaine”.
Quindi due opere che nel loro dilatarsi e prendere almeno nelle intenzioni un respiro narrativo importante, riescono a far presentire al lettore cosa fosse la prosa dello scrittore francese, la sua duttilità, la sua capacità “improvvisativa”.
Se invece parliamo di contenuti, nell’arco delle sette narrazioni vengono messe in campo “tutte le ossessioni” che si possono incontrare nel corpus dell’opera garyana, come dice precisamente la bandella. In essi si trovano ben scanditi l’inferno della malinconia, la presenza del doppio, la volontà fuga, il desiderio di altrove, il nomadismo, la menzogna che alberga negli esseri umani, la disperazione dell’amore, la persistenza del dolore.
Presentissima, quasi già avvertita, la vicinanza della morte con cui farà i conti il 2 dicembre 1980.
Nei testi è non voluta oppure è cercata, fino al punto di organizzarla. Quest’ultimo è il caso di All’ultimo respiro, dove però la volontà di morire del protagonista viene investita dal twist finale che Gary immette, riuscendo a sorprendere il lettore. Qualcosa di simile comunque lo si trova nelle battute finali di Tempesta o, per altro verso, di Dieci anni dopo ovvero la storia più antica del mondo.
Da non nascondere che sia i racconti che le due lunghe partiture incompiute contengano nel loro corpo ripetizioni e soluzioni imperfette.
Ma anche se la pagina può apparire non compiutamente lavorata (e vista con gli occhi di oggi, così non pare), essa racchiude il linguaggio di Gary.
Come ricorda Edoardo Pisani in un suo articolo parlando in generale dell’opera, la critica francese lo accusa di non saper scrivere, di usare anglicismi, di rendere troppo americano il francese, di costruire frasi ridondanti, di seminare lungo le pagine errori grammaticali, di avere uno stile goffo, teatrale…
Sarà pur vero, ma la sua scrittura riesce ugualmente ad abbagliare, a coinvolgere, attirare a sé. Anche qui, anche nelle storie che Tempesta offre per la prima volta al lettore italiano.
Un dato incontestabile, che sottolinea quanto affermava Gary del suo essere un prodotto di meticciato razziale (il suo nome è Romain Katcev, nato a Vilnius nel 1914).
Questo è un pregio che agli occhi del lettore potrebbe scavalcare la capacità di costruire storie, palesandosi al meglio nella feroce capacità di rivoltare la lingua, nello spostarla in avanti, verso il futuro. Un futuro linguistico che oggi conosciamo bene, che forse è già passato, ma che troviamo riflesso dentro molte delle pagine di Tempesta.
E se il profumo di alcuni fra i sette testi può ricordare Ernest Hemingway, la scrittura di Gary si dimostra ancora una volta essere altro.
È bulimica, esondante, apparentemente meno matematica, più istintiva e rabdomantica di quella del collega.
Una lingua, ripetiamo, innovata e perciò innovativa. Per lui, decorato con la Legione d’onore, conservatore e gollista, qualcosa che lo sposta in tutta un’altra dimensione politica. Forse per questo risulta così destabilizzante per la critica gauchista dell’epoca.
Sergio Rotino
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Non è così facile trovare un buon killer professionista a Los Angeles, a meno che non si conosca qualcuno disposto a fare da garante; ci avevo messo un’eternità a trovare Muradov e già allora sentivo salire il panico, dato che mi restavano solo tre settimane. La notte non riuscivo più a dormire, ossessionato dalla sensazione che gli occhi di duecento bambini che stavano morendo di fame mi fissassero con aria di rimprovero. Sapevo anche che, secondo le statistiche della Croce Rossa, laggiù moriva un bambino ogni tre minuti e cominciavo a sentirmi un dilettante, patetico e incompetente. Per un uomo che aveva trascorso gran parte della sua vita adulta tra killer professionisti, era una situazione davvero grottesca. Ma c’è da dire che, da un lato, negli ultimi anni ero stato completamente tagliato fuori da questo genere di attività, impegnato com’ero a scrivere misere sceneggiature e poesie pubblicate in forma anonima, e che, dall’altro lato, le amicizie che avevo tra gli assassini erano tutte legate a un certo idealismo e, dunque, quelli non erano in grado di fare nulla per me. Non potevo ricorrere a un ragazzo come Broniek Schurr, il cui ultimo incarico per la nostra organizzazione era stata l’esecuzione di tre capitani dell’esercito brasiliano che, secondo i dati ufficiali pubblicati dal governo brasiliano, avevano assassinato circa duemila indiani dell’Amazzonia. A dire il vero, nessuno che conoscevo aveva mai ucciso un uomo, anche se devo ammettere che la mia generazione aveva forse nutrito troppe illusioni a riguardo ed è del tutto possibile che l’uomo sia un concetto romantico e poetico, una creazione artistica che non sopporta il confronto con la realtà. Oltretutto, era essenziale avere un assassino che di me non sapesse quasi nulla e al quale importasse ancora meno, perché questi tipi notoriamente rifuggono dai contratti che riguardano personaggi «famosi» dato che la cosa comporta sempre indagini più accurate e molta pubblicità sui giornali. L’unica persona a Los Angeles di cui potevo fidarmi completamente era una donna. L’avevo conosciuta a Khartoum, durante la guerra. La mia squadriglia di Blenheim era di stanza all’aeroporto militare di Gordon’s Tree; stavamo effettuando missioni di bombardamento contro le truppe italiane in Etiopia. Lei faceva parte di una troupe di ballerini ungheresi, bloccata a Khartoum dalla guerra, e faceva la hostess nel night che stava sul tetto del Royal Hotel. Avemmo una relazione, breve e alquanto difficile, perché dovevo condividere i suoi favori con circa due o tre ufficiali al giorno, anche se gli altri erano in realtà ospiti paganti, mentre i nostri rapporti erano davvero puri. L’avevo ritrovata a Los Angeles, dove ero venuto a scrivere una sceneggiatura nel 1961, e a quel tempo era diventata una signora molto grassa, con un’orribile faccia incipriata, sempre vestita con un abito da sera di organza arancione e con in mano un piccolo ventaglio giapponese intarsiato di madreperla. Le persone diventano ogni genere di cosa nella vita, ma non mi sarei mai aspettato di vedere Mathilda diventare somma sacerdotessa della Setta delle Eterne Delizie a Pacific Palisades, anche se in realtà non si trattava d’altro che di un bordello esoterico. Soddisfaceva i bisogni dei guardoni, sostenendo, per ragioni filosofiche, che anche le persone anziane o impotenti avevano diritto alla loro parte di felicità e che il fare l’amore di una coppia giovane e bella non doveva essere egoisticamente tenuto per sé, ma offerto in dono alle persone sole, brutte e infelici. Non era la sola a provvedere a tali bisogni psicologici più profondi dei meno privilegiati, ma era stata abbastanza furba, o forse abbastanza sincera, da ammantare la sua impresa di un’ampia aura di misticismo, impiegando solidi riferimenti a Babilonia e all’antica Grecia, alle Vestali, alle Sorgenti della Gioia, alla Fontana della Bellezza, alle Compassioni e tutti gli altri abbellimenti necessari per dare al guardone l’impressione di non fare altro che entrare in una cerchia molto ristretta di adoratori della vita. Forse aveva anche ragione, forse era anche sincera a modo suo, non lo so e non m’interessa. Il sesso è l’occupazione più innocente del mondo, tranne per la sua tendenza a rivelarsi nient’altro che tale, e a trasformare la magia in una sorta di self-service. Feci visita alla “Presenza” – come veniva chiamata, con grande rispetto, la somma sacerdotessa nella sua sede di Pacific Palisades nel 1968 – pochi mesi prima di sottopormi a un intervento di chirurgia plastica, cosicché lo sconosciuto che un giorno sarebbe stato ritrovato in uno squallido motel e la cui foto che indubbiamente sarebbe stata pubblicata non le ricordasse qualcuno che aveva conosciuto così bene. In ogni caso, mi fidavo ancora completamente di lei. La sua casa era in fondo a un meraviglioso giardino, pieno di vespe e rose, lei mi servì del tè alla menta e aprì la finestra, vedendomi tirare su col naso, a disagio nell’atmosfera carica di incenso. I «fortunati ospiti» avevano ciascuno la propria stanza, dove potevano assistere al «magnifico spettacolo» sullo schermo di un televisore a circuito chiuso. C’era anche una postazione nel soggiorno e mentre stavamo bevendo il tè e parlando dei vecchi tempi, una giovane coppia molto attraente condivideva generosamente la sua felicità con il pubblico invisibile: era davvero una coppia molto bella.
«Non vengono pagati» dichiarò in tono fermo e con una punta di rimprovero la “Presenza” come se sospettasse che un pensiero incongruo, o addirittura salace, mi fosse passato per la mente.
«Sono membri della nostra congregazione e regalano la loro felicità e la bellezza».
Presi un sorso di tè nel quale galleggiavano alcuni petali di gelsomino.
«È nettamente preferibile all’LSD o all’eroina» dissi educatamente.
«La nostra chiesa riceve attualmente trenta richieste di adesione a settimana. Ma stiamo molto attenti. Le vagliamo con la massima cura. Ci sono tanti squilibrati. Accettiamo solo persone pulite, persone sincere che sentono di avere qualcosa da dare».
Non si era mai liberata del suo accento ungherese. Continuava a fissarmi con sospetto, scuotendo leggermente la testa. Aveva i capelli rossi e un’aria da finto manifesto di Toulouse-Lautrec.
«Non hai l’aria convinta» disse con un accenno di rabbia nella voce.
«Penso solo che ci siano abbastanza religioni e chiese del genere» dichiarai.
«Ah, ma la nostra è diversa. La nostra è bella. La nostra è quella del vero amore».
Non dissi nulla e posai la tazza. Con la coda dell’occhio guardai lo schermo. La giovane coppia era estremamente impegnata. Era un televisore a colori.
«Personalmente preferisco il bianco e nero» dissi.
«Il bianco e nero ha sempre un che di pornografico» ribatté.
Rimasi seduto in silenzio, pensando ai templi del Nepal e alle loro sculture così squisitamente erotiche. Allora, perché no? Con ogni probabilità sono io troppo vecchio stile. Non appartengo più ai miei tempi. Sono sfasato, come si dice, sconnesso. Forse questo posto è stato creato appositamente per gli idealisti, qui potevano liberarsi delle loro eccessive aspirazioni.
«Sei un puritano» riprese lei. «Eppure, ti ricordi trent’anni fa?»
«Io ricordo ogni cosa. Ho la memoria assoluta. È orribile».
«Non rifiutavi i soldi che ti davo, anche se ne conoscevi perfettamente l’origine. Questo si chiama fare il pappone».
«C’era la guerra» sottolineai.
Ridemmo entrambi. Poi le spiegai perché ero venuto a trovarla. Mi ascoltò in silenzio, senza smettere di farsi vento. La vista di una donna grassa e anziana che si fa vento ha sempre qualcosa di triste. Sangue che circola male.
«Per favore, non farmi domande» dissi. «In memoria del passato».
«Sono stupefatta» disse. «Mi deludi. Perché non lo liquidi tu stesso? In passato non avresti esitato».
Provai ad assumere un’aria imbarazzata.
«Be’, vedi, sa che sto cercando di sbarazzarmi di lui». In fondo, era la verità. «Sa che ne ho abbastanza di lui e della sua compagnia».
Lei annuì con aria complice.
«Un socio in affari?»
«In un certo senso».
Rimasi sbalordito nel constatare quanto poco mi discostassi dalla verità. Era bello non dover mentire a una vecchia amica.
«Cosa ti fa pensare che io conosca quel tipo di persona?» mi domandò.
«Penso che tu conosca tutto e tutti. E poi so che avevi tanti amici da queste parti. Come sta Mickey Cohen?»
«È morto» rispose. «Sono riusciti a farlo mettere al fresco grazie a una messinscena e poi lo hanno fatto liquidare da un altro detenuto».
«E Candy Barr?»
Alla fine degli anni Cinquanta era la spogliarellista più famosa, la più grande star dei migliori film porno.
«In una prigione del Texas. Affermano di aver trovato della droga nella sua macchina, il che è vero, visto che sono stati loro a metterla lì».
Tirò fuori una sigaretta da una scatola cinese e le offrii da accendere. La sua testa tremava leggermente. I capelli avevano quell’aspetto opaco e scialbo che evoca visioni di esistenza postuma e fa sembrare certe acconciature, fissate dalla rigidità e dalle tinte, simili a quei fiori artificiali che si mettono sulle tombe. Gli occhi avevano quello sguardo penetrante, oscuro e assolutamente spietato che deriva da una profonda conoscenza della natura umana. Era una donna che difficilmente risultava simpatica.
«La cosa non mi piace» disse. «Eri uno dei pochi uomini perbene che abbia mai incontrato e ora vieni qui per ottenere i servizi di qualcuno. Cosa sta succedendo, sei diventato impotente o cosa?»
«Non farmi domande, Mathilda, perché non voglio raccontare favole a una vecchia professionista come te. Trovami un grilletto».
Rimase immobile per un momento, a riflettere. La sua mise era troppo elegante, rosso ovunque, e arriva un momento nella vita di una donna in cui più gli abiti sono sontuosi, più sembrano prendersi gioco di te.
«Ti darò Muradov».
(estratto da All’ultimo respiro)