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Nostra signora dei fulmini. Intervista a Giancarlo Piacci

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Giancarlo Piacci vive e lavora a Napoli. Da più di dieci anni è uno dei librai di riferimento del centro storico. Ha esordito con il romanzo I santi d’argento (Adriano Salani Editore, 2022). Il suo ultimo romanzo in libreria è “Nostra signora dei fulmini” (Adriano Salani Editore, 2024).

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Sei un poliedrico agitatore culturale: storico libraio italiano di base a Napoli, docente nei laboratori di scrittura ed editoria della riconosciuta scuola di scrittura “La linea scritta” di Antonella Cilento, apprezzato scrittore di puro talento. Come ti organizzi, ogni giorno, per riuscire coordinare questi tre ruoli rispetto alla tua grande passione che ti lega al mondo delle storie?

Non è sempre facile. Ogni giorno mi vedo costretto a rinunciare a tanti progetti interessanti perché purtroppo il tempo non basta mai. Il capitalismo ha preso d’assalto la vita stessa delle persone e quindi anche il tempo libero, il sonno. Resistere a tutto questo è difficile, quasi impossibile. D’altro canto, la mancanza di tempo alle volte è anche un alibi per non accettare le sfide o per impigrirsi sul divano a sognare una vita migliore. È la differenza che faceva Rodari tra praticare il Fantastico.

La libreria assorbe gran parte delle mie giornate perché praticamente è sempre aperta. Tuttavia, si tratta di uno sforzo necessario, di un sacrificio ragionato; ci teniamo molto a ribadire l’urgenza di un presidio culturale su di un territorio che ogni giorno smarrisce un po’ di più la propria autenticità, sopraffatto da un turismo incontrollato e senza limiti. Un piano inclinato, finalizzato a consumare la città.

Con la Lineascritta ho un rapporto splendido, devo moltissimo ad Antonella e tutti gli altri. Ogni anno ho l’opportunità di guardare negli occhi ragazze e ragazzi iscritti ai vari corsi, o al Master Sema del S. Orsola, e rivedere me stesso tanti anni fa, quando sognava di entrare a far parte anch’io di quell’universo editoriale che mi affascinava tanto. Oggi, a loro, ne racconto splendori e miserie, ma credo sempre con lo stesso entusiasmo.

Con la scrittura, invece, ho un rapporto di passione smisurata. E, come in tutte le storie d’amore, abbiamo una quotidianità tormentata. Non siamo in grado di pensare al futuro, ai figli, al matrimonio. Solo a vivere il presente, a bruciare la vita. La mia relazione con la scrittura è come l’organizzazione di una rapina. Programmare il presente, analizzare il dettaglio. E poi l’adrenalina del colpo, il mistero di saltare il bancone. Dopo di che, ognuno per la sua strada. Fino alla prossima avventura.

Nel tuo ultimo noir appena uscito per Adriano Salani Editore, Nostra signora dei fulmini, hai raccontato una Napoli insolita ma credibile, fuori dalla capitale europea da cartolina classica vista in questi anni: i protagonisti delle tue storie cercano la propria identità in un territorio affascinante, ma complesso: una terra che pur avendo una propria identità, ora si svende e ora resiste, in nome della gentrificazione. In definitiva, i personaggi sinceri che dalle tue pagine parlano al lettore, aspirano a vivere non a sopravvivere, come si ritrovano a fare costretti loro malgrado. Dove trovi gli spunti (e le parole) per raccontare al meglio questa contraddizione?

Questo è esattamente il problema con cui fanno i conti centinaia di migliaia di napoletane e napoletani. Io dirigo una libreria che si trova in piano centro storico, a Spaccanapoli per l’esattezza e necessariamente anche il nostro approccio lavorativo è cambiato negli anni. Abbiamo visto mutare la città di giorno in giorno, e non necessariamente in meglio. Il processo di turistificazione ha alzato i prezzi delle case e dei beni di consumo, costringendo i residenti storici ad allontanarsi dal quartiere. Un processo di espulsione che pare inarrestabile. Ecco, io volevo raccontare le vicende di quell’umanità lì. Quelle delle persone normali a cui ogni giorno è richiesta l’avventura di lavorare senza potersi permettere una casa, di accettare straordinari senza tuttavia sapere se potrà permettersi di rinnovare l’assicurazione dell’auto con cui recarsi in ufficio. Così, allo stesso tempo, volevo occuparmi della sofferenza mentale, della dipendenza, della stigmatizzazione della diversità. Della marginalità in generale. Tutto questo è espulso dalla narrazione di Napoli a cui siamo abituati, forse perché non è avvincente, non fa notizia. Ogni vita è uno spunto, ogni tormento, ogni desiderio, è già una storia. Io cerco solo di raccontare la città e i suoi abitanti senza tradirli, senza assolverli, ma anche senza approfittarne. Credo fermamente nel carattere sovversivo del Noir. Credo sia un genere in grado di vestire i panni del romanzo sociale del nostro tempo. Bisogna solo avere la voglia di farlo.

A proposito della tua formazione autoriale: come (e dove) hai scoperto la tua voglia di scrivere storie?

È sempre stata dentro di me. Anche se a scuola andavo malissimo, anche se pensare di avere qualcosa da dire e lo strumento per farlo, mi appariva velleitario fino a una certa età. Ma la parola scritta mi ha sempre affascinato. Ammiravo le persone in grado di maneggiare il vocabolario con cura, senza fregiarsene, come chi si porta dietro una bellezza scomposta e non appariscente. La parola mi attraeva. Era una tentazione inesorabile a cui avrei potuto cedere prima. Non so perché alla fine sia passato così tanto tempo e abbia scritto il mio primo romanzo alle soglie dei Quaranta. Forse perché sono il primo boicottatore di me stesso. Una forte scossa a quest’impasse è stata il desiderio irrefrenabile di accendere una luce sui tempi del contemporaneo, sulla necessità di portare fuori dalla mia bolla questioni sociali e umane troppo urgenti per essere taciute.

Come (e dove) ti sei formato per diventare un libraio professionista?

Moltissimi anni fa, ormai (eh sì, il tempo passa), ho frequentato la Scuola Librai dell’Ali, a Orvieto. Sono stati mesi stupendi, tra i più belli della mia vita. Oltre a crescere professionalmente, a formarmi, ho conosciuto persone fantastiche alle quali sono tutt’ora legato. Grazie a quel percorso ho iniziato a lavorare in maniera organica in libreria (non più solo il massacro stagionale della scolastica). Da allora sono trascorsi anni importanti e fecondi. Ho lavorato con persone che ho ammirato e da cui ho imparato tanto, ma anche con gente priva di empatia.

Nel ruolo di scrittore, quali sono i tre autori classici da cui non vorresti mai separarti? E in qualità di docente ospite della rinomata e antica scuola di scrittura La Linea Scritta fondata dalla scrittrice Antonella Cilento a Napoli, quali sono gli autori contemporanei che consiglieresti in tuo laboratorio?

Mi permetterai di disattendere parzialmente a questa domanda perché di autori classici ce n’è uno che per me rappresenta tutto. Victor Hugo. Ho sempre desiderato incontrarlo, parlargli, interrogarlo sui Miserabili, un libro che mi ha tenuto sveglio, mi ha fatto piangere, mi ha segnato come una cicatrice.

Ancora molti mesi dopo la lettura di quel libro (nonostante debba riconoscere di aver faticato non poco sul secondo tomo, quello su Waterloo), tutto quello che mi passava tra le mani mi pareva costituito da nient’altro che storielle senza importanza a confronto con l’enormità delle vicende di Jean Valjean. Per questo mi piacerebbe incontrarlo e magari chiedergli cosa pensa dei Miserabili di oggi e se per loro esiste ancora un futuro. Avremmo un gran bisogno di persone come Victor, oggi.

Sul presente, invece, ti accontento. In quasi ogni mio intervento pubblico non posso esimermi dal citare il mio debito nei confronti di J.C. Izzo. La lettura dei suoi romanzi mi ha cambiato come lettore e come potenziale libraio. In secondo luogo, suggerisco di incrociare la propria strada con quella di un narratore Sudamericano di nome Manuel Scorza. Forse è poco noto in Italia, ma i suoi romanzi sono eccezionali. Consiglio di iniziare con La danza immobile e di affrontare, poi, i cinque titoli del Ciclo andino, sono uno più bello dell’altro. Infine, confesso la mia passione spassionata per Guillermo Arriaga, Il Selvaggio è un viaggio fuori e dentro se stessi che ognuno dovrebbe fare almeno una volta nella vita.

Il fumettista Zerocalcare ha illustrato le copertine di entrambi i tuoi libri. Tu che legame culturale hai con il cinema e i fumetti? E quali sono i tuoi maestri di riferimento di questi due medium narrativi?

Michele è un vero amico, una splendida persona. Dal punto di vista artistico è senza ombra di dubbio il migliore interprete della nostra generazione, dei suoi tormenti, delle insicurezze, ma anche dei suoi desideri e ambizioni. Ha il merito di aver fatto conoscere e apprezzare al grande pubblico le graphic novel, prima relegate un po’ a genere per ragazzi.

Io, personalmente non sono un grande esperto, ma, per restare nel contesto artistico e culturale di Zc, posso dire di adorare Manu Larcenet. Sebbene la mia educazione ai comics sia più segnata da Dylan Dog e Corto Maltese.

Per quanto riguarda il cinema, sono un appassionato di tutto quanto riguarda il Crime, il particolare de Il Padrino, quei tre film li avrò visti almeno venti volte ciascuno. Li conosco a memoria. Nel vero senso della parola, potrei recitarne tutte le battute.

Ogni scrittore immagina un lettore ideale. Ogni libraio desidera conoscere a fondo i gusti dei propri lettori e acquirenti di libri. O forse no. Da libraio storico di riferimento, secondo te, quanta capacità imprenditoriale serve per restare in piedi nel complesso mercato italiano? E ancora: quanto il tuo essere un libraio-scrittore ti aiuta a dialogare con i clienti e lettori di libri napoletani?

Il nostro lavoro è profondamente mutato. Nel corso degli ultimi anni. Le abitudini di consumo culturale e di acquisto hanno subito profondi mutamenti e oggi gli store online rappresentano quasi il 40% del mercato librario. Una quota assurda, fuori logica. Ultimamente le librerie fisiche stanno riuscendo rosicchiare qualcosa, a guadagnare nuovamente terreno contro un colosso. Mai come ora, la sola forza di cui disponiamo siamo noi stessi, la nostra empatia, la nostra professionalità. Le persone sono una delle due variabili che gli store online non possono avere. La seconda, ovviamente è la libreria, le quattro mura. Organizzare eventi, riunioni, concepire il proprio spazio e se stessi come parte di una comunità e proporsi di aggregarla è il solo modo per fare il libraio oggi. E anche quello più divertente. La letteratura è scoprire di non essere soli, di scoprire che i propri desideri sono universali, diceva Fitzgerald. Ecco, noi vogliamo interpretare proprio questi desideri. Tessere legami, cucire relazioni tra lettrici e lettori. È bello, entusiasmante, arricchente. La mia parte di scrittore in realtà la tengo un po’ ai margini della mia vita in libreria, tuttavia devo dire che avere delle relazioni personali con molte scrittrici e scrittori mi ha dato modo di poter aggiungere ulteriori sfumature quando propongo un libro a una lettrice.

Come impieghi il tuo tempo quotidiano da lettore appassionato?

Quando si comincia a lavorare in libreria si frantuma presto l’idea romantica del luogo in cui è possibile leggere. Purtroppo è un lavoro di fatica e di polvere. Si legge quasi sempre nei ritagli di tempo o per esigenze lavorative, come gruppi di lettura o presentazioni. Io provo a ritagliarmi del tempo la mattina presto, ma non è sempre facile farlo in maniera organizzata e continuativa. Quindi, per rispondere, direi che strappo il tempo a tutto. Alla colazione, alla mia famiglia, ai miei libri. Da tutto tiro via un brandello di tempo per restare al passo con le ottantamila nuove pubblicazioni in uscita ogni anno in Italia!

Quale libro non consiglieresti mai a un lettore?

Questo non si può dire. Diciamo che diffido molto da self-publishing. Ma è un discorso lungo e complesso.

Stai lavorando a un nuovo romanzo? Se sì, ti andrebbe di anticiparci qualcosa sulla storia?

Al momento non so bene cosa voglio fare nel prossimo futuro. Sto raccogliendo delle idee. Come dicevo prima, io parto sempre dai temi di cui voglio parlare. Una volta sicuro che la questione sia quella giusta, che quella storia voglia essere raccontata proprio da me e sola da me, verifico se i personaggi che ho a disposizione sono quelli giusti o se devo profilarne di nuovi. Attualmente sono ancora abbastanza alla ricerca dell’idea giusta.

Il dialogo con gli animali affiora nelle tue storie come un tema per te vitale. Che affinità esiste, se esiste, fra i gesti di queste creature viventi esemplari – che addolciscono il mondo caotico in cui viviamo – e i suggestivi segni della parola scritta sulla pagina?

In generale dovremmo ridefinire il nostro rapporto con la natura. Un tempo ci si chiedeva “che mondo stiamo lasciando alle future generazioni?” La domanda riguardava il contesto sociale. Oggi riguarda anche il pianeta stesso. Stiamo lasciando solo rovine. Deprediamo, sfruttiamo e mangiamo tutto, senza preoccuparci di nulla. Detto questo, il mio personale rapporto con gli animali è molto stretto. Ho una cagnolina che è sempre con me. Per la promozione dei romanzi abbiamo attraversato insieme l’Italia da Reggio Calabria a Bolzano. Parlare degli animali è difficile, si finisce presto per scadere nella retorica del “sono meglio dei cristiani”. Io vorrei invece aprire un dibattito su quanto sia faticoso in Italia portarli con sé, farli accettare negli alberghi, nei musei, nei ristoranti, sulle spiagge. Ci siamo visti mettere alla porta molto spesso e in contesti in cui non lo avremmo immaginato. Ecco, se un giorno dovessi raccontare della vita on the road con la mia cagnolina, dovrei raccontare di tutte queste difficoltà, secondo me in tanti si ritroverebbero.

Hai mai pensato di andare in giro per le scuole a narrare la tua vita da agitatore culturale? Trovi che sia una pratica utile per stimolare la voglia di leggere nei nuovi giovani lettori?

Da alcuni anni organizziamo dei PCTO con le scuole. Una volta si chiamava “alternanza scuola-lavoro”, un nome orribile per una pratica orribile. In queste esperienze un ragazzo perse la vita in fabbrica alcuni anni fa. La cosa ci sconvolse e decidemmo di provare a presentare alle scuole dei progetti in cui invece del lavoro proponevamo la lettura. Da allora è andato tutto avanti molto velocemente, abbiamo incontrato migliaia di studenti e abbiamo portato tante autrici e autori tra i banchi di scuola. È un’occasione meravigliosa per far capire a ragazze e ragazzi che leggere può essere meraviglioso e non per sempre una pratica noiosa e antiquata. Già quando ci vedono arrivare, tutta la crew della libreria, giovani e “sul pezzo” dei loro riferimenti culturali, restano stupefatti.

Qual è il primo romanzo che ha scatenato in te – da bambino – la tua passione per le storie scritte?

Ogni sera mio padre raccontava a me e mia sorella una storia di Sandokan. Posso dire che Tremal-Naik sia stato uno dei miei più cari amici d’infanzia. Subito dopo sono passato ai libri game. La serie del Lupo solitario era diventata una specie di ossessione per me. Dai dieci ai quattordici, invece, ho letto poco, pochissimo. Ero totalmente concentrato sull’esplosione ormonale di quell’età e sul Calcio Napoli. Per fortuna la mia generazione ha avuto “Jack Frusciante” che ha ristabilito il contatto tra i libri, le pagine e i ragazzini un po’ incasinati come me.

Vuoi dire qualcosa ai tantissimi clienti che seguono i tuoi consigli di lettura? E qualcosa ai lettori (vecchi e nuovi) delle tue storie?

Non ho consigli da dare. Ho entusiasmi da condividere. Il nostro è un mondo in cui non serve essere dei buoni venditori, fiutare l’affare, convincere a spendere. Il nostro è un universo di fiducia e cura. Posso solo dire che la lettura è più entusiasmante quando è condivisa, quando ci si mette in discussione come lettrici e lettori. Rendere la pratica della lettura un’esperienza collettiva è il mio obiettivo primario.

Mario Schiavone 

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