Il romanzo risponde all’appello del reale – l’appello rivolto a chiunque si trovi confrontato all’esperienza dell’impossibile, allo strazio del desiderio e del lutto. Succede in quel momento qualcosa che chiede di essere detto e che non può esserlo se non nella lingua del romanzo, perché è la sola a restare fedele alla vertigine che si apre allora nel tessuto del senso, nella rete delle apparenze, per lasciare che vi si intraveda lo scintillio di una minuscola rivelazione. È questo il realismo del romanzo che proviene dall’esistenza vissuta e da cui si deduce una verità, dato che il lavoro dello scrittore consiste nel riprenderla senza sosta, nel tornare incessantemente verso di lei.
Visto che risponde all’appello del reale, che scaturisce dall’impossibile e che un protocollo di questo genere esige l’esperienza che gli dia senso e lo giustifichi, il romanzo si scrive sempre in prima persona singolare, ma l’io di cui rende conto è esattamente il contrario di quello su cui poggia il principio opposto dell’impresa autobiografica: non presuppone alcuna identità personale da esprimere positivamente ma conduce verso l’orizzonte estatico in cui il soggetto si compie negativamente nel faccia a faccia con l’impossibile. Colui che scrive la sua vita si sdoppia e diventa per sé stesso un altro, una figura fittizia di cui il romanzo dice le avventure e le trasformazioni. Per questo non è necessario dedurre il romanzo dalla realtà dalla quale peraltro proviene ma che esso soprattutto restituisce alla sua verità inventata. Troppo spesso ricondotta a un neonaturalismo dell’intimo, la nozione di autofiction deve essere superata al fine di restituire al “romanzo dell’io” la sua vera dimensione.
Ogni testo è in costante interazione col lettore, senza lettori il testo è incompleto e l’atto creativo un atto imperfetto. Il lettore mette in moto la “macchina pigra” che è il testo e procede per “sentieri narrativi” che l’autore ha o non ha definito, come in un bosco dove ogni strada è nuova.1 Il lettore compie delle scelte perché costituisce la trama stessa del tessuto narrativo. L’autore, a sua volta, ha operato progressivamente una “fuga” dalle sue narrazioni, una fuga che al principio si configura come evoluzione, trasformazione. Si è trasformato, da creatore di personaggi, in personaggio egli stesso grazie alla narrazione in prima persona.2 È questo il caso de La familia de Pascual Duarte di Camilo José Cela, pubblicato nel 1941, il primo romanzo significativo del panorama letterario del dopoguerra spagnolo. Fin dalle prime pagine il libro si presenta “votato” alla verosimiglianza e al rispetto del patto letterario: i sentieri sono perfettamente tracciati dall’autore, impegnato a mettere in atto le strategie narrative che il lettore riconosce. Sottolinea Cela che i punti cardine assolutamente da perseguire sono: sincerità, verità, lealtà, chiarezza.3
Il romanzo della seconda decade del post-dopoguerra mostra già i segni di un graduale allontanamento dell’autore dalla creatura narrativa.
Da una parte ci sono gli autori che inventano le storie, la cui abilità consiste nel congegnarle bene, scriverle in buona lingua, dopo averle affidate a personaggi accattivanti e persuasivi, non senza aver dosato con sapienza i sentimenti. Dall’altro lato ci sono gli autori che non scrivono storie ma vita, quella di cui loro stessi sono i protagonisti, e nel farlo scoprono che il romanzo, la finzione narrativa che nasce dal racconto di certe esperienze, è l’unico luogo in cui l’io esiste. L’alternativa è tra una narrativa di consumo e un romanzo del reale. La forma narrativa che rende possibile l’esistenza di un romanzo contemporaneo, al di là e separatamente da quello commerciale, è la scrittura dell’io. Se realismo è resoconto minuzioso della realtà, del suo possibile, romanzo del reale al contrario è quello che mira a dire, del reale, l’impossibile.
Chiunque racconti la propria vita, inevitabilmente, dandole forma di racconto, la trasforma in finzione. Poiché la verità ha struttura di finzione, la finzione deve raddoppiarsi, diventare finzione di sé stessa, se vuole sperare di ricondurre autore e lettore verso il luogo eventuale della verità.4
La possibilità odierna di vita per un genere come quello del romanzo, infinitamente e reiteratamente dato per morto, risiede per Philip Forest nella sua capacità di farsi scrittura per l’esperienza estrema, quella cui è legata la nostra vera vita, emotiva e intellettuale, ma che il discorso sociale non integra per la sua scomodità. L’esperienza estrema è la parte maledetta delle nostre vite, tutto ciò per cui l’universo della ragione vacilla e viene meno: il riso, l’ebrezza, l’efferatezza erotica o mistica, il male, infine la morte.
Filosoficamente parlando, la verità risiede nell’accordo tra il linguaggio e il reale. Se il reale, come afferma Lacan, si presenta come impossibile, cercare il vero – questo il romanzo per Forest dovrebbe fare – consiste nel cercare l’impossibile, l’insostenibile, il limite, il momento in cui il senso viene meno. Il romanzo risponde al reale, ma risponde anche del reale, attraverso lo smantellamento dell’identità in quanto certezza, esso si fa testimoniale. Rende conto di ciò che avviene nelle sue dinamiche interne e di rapporto con l’esperienza vissuta, in modo tale che lo scandalo, l’osceno, l’indicibile ne siano salvaguardati, e non cada nell’oblio ciò che essa rappresenta. Nasce con Forest un nouvel engagement per il terzo millennio, che sdogana il sentimento, il pathos, forma moderna di un osceno che il puritanesimo contemporaneo si rifiuta di considerare.5
Foscolo ha sempre avuto una visione austera e appassionata del mondo, che non è retto dalla Provvidenza bensì dalla forza, tuttavia l’amore, la libertà, la giustizia non vi sono del tutto impossibili (altrimenti la società tutta intera si disfacerebbe), e si può anche mostrare come operano e dove. Senza mai ammettere esplicitamente di averli imitati, Foscolo riconosce in Nouvelle Héloïse (Jean-Jacques Rousseau) e Werther (Johann Wolfgang von Goethe) i capostipiti di un filone narrativo contemporaneo cui anche lui si è ispirato. Per lui l’opera d’arte non è una totalità autosufficiente, retta da leggi immanenti, un sistema simbolico, come avevano iniziato a teorizzare in Germania, intorno al 1875 Moritz e Goethe. Essa è piuttosto la rappresentazione di un “fatto”, di un “vero”, cioè di una storia, di una serie di eventi fra loro connessi che un primo scrittore ha colto nella sua verità e da cui gli autori successivi, i suoi imitatori, non potranno più dipartirsi. Due scrittori, pur trattando lo stesso argomento, lo possono svolgere in modo diverso, e con diverso successo, uno per esempio sorpassando gli altri nel grado di “realtà” che conferisce ai suoi personaggi, un altro invece rendendosi meritevole per il grado di bellezza ideale che ha infuso in essi. Foscolo rimane dunque fedele a una concezione classicista della letteratura, che gli permette fra l’altro di distinguere l’invenzione di un particolare contenuto narrativo dal grado di perfezione raggiunto nella sua rappresentazione.6
Il novel nasce in Inghilterra come reazione al fantastico dei romanzi cavallereschi e all’eroico dei romanzi eroici, specialmente francesi, del Seicento: dai generi precedenti, dotti o popolari che siano, dalle novelle, dal romanzo picaresco, dal saggio di costume, dalle biografie dei criminali, il novel assorbe soltanto ciò che non sia eroico né fantastico, tutto ciò che abbia almeno parvenza di verità. E il rifiuto dell’eroico e del fantastico porta con sé il rifiuto dello stile pseudoepico e pseudopoetico, roboante e ornato. Il che significa un mutamento di gusto nei lettori, e viene naturale attribuirlo al mutamento sociale avvenuto in Inghilterra con la rivoluzione del 1688 e la presa di potere della borghesia. Quel predominio di classe non durò e con esso cadde anche il predominio di gusto. I puritani borghesi e aristocratici per le loro ore d’ozio non vogliono più romanzi cavallereschi, come non vogliono più né drammi eroici né commedie immorali. Bisognava quindi istruirli offrendo testi loro graditi: romanzi che possano dare l’illusione di verità. Ovvero il novel.
Oltre al realismo, il romanzo del Settecento inglese ha, infatti, un suo fine educativo. Puritanesimo e borghesismo si mescolano. O meglio, l’istruzione che il romanzo del Settecento dà dipende da un’interpretazione borghese del puritanesimo.7
Il puritanesimo come costante culturale, come indispensabile anello di congiunzione tra espressione letteraria del Seicento e del Settecento, si muove tra le due personalità complesse e prolifiche di Milton e Defoe, per andare poi a compiersi, e per il momento a esaurirsi, in Richardson. Milton è innanzitutto e principalmente l’esempio morale, la manifestazione vivente di come sia possibile per una coscienza puritana, preoccupata in primo e fondamentale luogo di tenersi lontana dalla menzogna, esprimersi nelle forme letterarie più raffinate che la tradizione europea abbia elaborato, senza con ciò venir meno al proprio rigore e alla propria onestà.
La letteratura moderna è ricca di utopie in cui l’autore di volta in volta proietta le sue speranze e i suoi progetti per una convivenza umana più giusta e più civile. Anche Defoe, erede al tempo stesso della tradizione puritana e degli esperimenti coloniali inglesi, ne propone una nella seconda parte del Robinson Crusoe, le Farther Adventures. L’interesse di questa utopia non sta tanto nelle soluzioni trovate, ma soprattutto nel fatto che egli arriva a configurarla per gradi, quando è posto dinanzi alla necessità di descrivere la vita che si svolge sull’isola dopo che essa ha cominciato a popolarsi. L’originalità di Defoe sta nell’aver introdotto la dimensione del tempo nell’utopia. Farther Adventures si caratterizza come una “utopia narrativa”. Il divenire di questa colonia modello non solo permette una costruzione progressivamente aderente alle mutate esigenze dei suoi abitanti, ma anche porta a una definizione e a un progressivo sviluppo del loro mondo morale e psicologico, trasformandoli da strumenti di un esperimento sociale in veri e propri personaggi narrativi.8
Nella visione di Forest, questa è la morale del romanzo moderno: presuppone che rispondendo al reale, non rinunci a rispondere anche di lui, a farsene garante in modo che, attraverso le finzioni che costruisce, il romanzo ci faccia comunicare ancora con la parte ormai sottrattaci delle nostre vite, ci trasformi nei testimoni di un’esperienza che ha fatto di noi quello che siamo e che la scrittura, inevitabilmente colpevole, non può tradurre se non a condizione di tradirla. E se il romanzo, in tali condizioni, diventa in effetti il luogo in cui è sospeso qualunque giudizio morale, questa formula, ben lungi dal significare una qualunque resa al nichilismo, deve essere capita come invito a un movimento singolare in direzione dell’assoluto di una verità nella quale risiede l’esclusiva e sufficiente possibilità dell’impegno letterario, a sua volta diretto verso l’orizzonte perpetuo di un eventuale giorno successivo. Potrebbe sembrare una tesi priva di qualsivoglia ambizione e originalità, invece rivendica di non essere altro che la ripresa di una certa concezione della letteratura, accontentandosi di ricordarla in tempi di unanime oblio, di generale degenerazione.
Il libro è una visione polemica dello stato attuale di una letteratura post-moderna dalla quale la nozione di reale viene censurata due volte. Da un altro, il neo-naturalismo (che domina nelle forme egemoniche del romanzo commerciale e della world-fiction) sfugge al reale pretendendo di poter offrire del mondo una rappresentazione positiva dalla quale si trova a essere evinta qualunque riflessione del testo su sé stesso e sull’impossibile da cui procede. Dall’altro, il neo-formalismo (che tutta una parte di creazione romanzesca e poetica attuale rivendica), coerente con un’estetica della simulazione e del virtuale, congeda quello stesso reale in nome di una concezione della letteratura distaccata dal mondo, che si autocompiace e si presenta come un esercizio ludico e ironico che basta a sé stesso. Il romanzo del reale non costituisce quindi in alcun modo una sorta di “nuovo romanzo” che la letteratura attuale dovrebbe inventare per sostituirsi alle forme fossili della creazione e aggiungere un capitolo molto contingente alla storia delle avanguardie. All’opposto, il romanzo del reale aspira semplicemente all’espressione costante di una verità intonsa dell’esperienza letteraria quale essa appare delineata dalle grandi opere del passato e sempre attiva oggi nel romanzo vivo.
La tesi di Forest è questa: la possibilità romanzesca dipende dalla capacità che ha il testo di rispondere all’appello inaudito del reale. È doveroso distinguere da una parte il reale, spazio di negatività da cui il testo procede e verso il quale avanza, dall’altra, la realtà, trappola che il realismo sostituisce al reale per sbarrarne l’accesso, impedirne l’esperienza. La realtà come brutto romanzo che si sostituisce al sentimento proprio della nostra esistenza. La realtà: sedimentazione di sogni fatti da altri, pesante accumulo di finzioni fossili.
Il realismo romanzesco, in effetti (in quanto finzione immaginaria, oggi affiancata se non sostituita dal cinema), è ciò che programma il modo in cui noi pensiamo la nostra esistenza, lo schema che determina la possibilità dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre emozioni apparentemente più intime o più singolari. In altre parole, sono i romanzi a insegnarci che cosa può essere la realtà, sono loro a modellare la forma del verosimile ai nostri occhi, a determinare i ruoli stereotipati che potremo interpretare credendo di viverli, a concepire gli intrighi intercambiabili di cui avremo l’illusione che costituiscono il corso uguale a nessun altro della nostra storia personale più segreta. Così, per l’autore, ciò che viene fatto passare per realtà e che, inizialmente, accettiamo come tale, non è mai altro che finzione. Per cui il romanzo che egli costruisce è la finzione della finzione, che è la realtà e che, annullandola tramite questo raddoppiamento, consente di giungere a quel punto di reale nel quale esso si rinnova e attraverso il quale ci comunica il senso vero della nostra vita.
Irma Loredana Galgano
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Philippe Forest, Il romanzo, il reale e altri saggi, Rosenberg & Sellier, Torino, 2024.
Traduzione di Gabriella Bosco.
Titolo originale: Le roman, le réel et autres essais.
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1U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano, 1994.
2J.M. Castellet, L’ora del lettore, Einaudi, Torino, 1962.
3R. Pignataro, La fuga dell’Io narrativo nel romanzo del dopoguerra spagnolo, in L’analisi linguistica e letteraria, Anno XXII – 1-2/2014, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2014.
4G. Bosco, Nella vertigine dell’identità, in Il romanzo, il real e altri saggi.
5G. Bosco, op.cit.
6E. Neppi, Le origini del romanzo “moderno” secondo Foscolo: la Julie, il Werther e… Jacopo Ortis, in C. Berra, P. Borsa, G. Ravera (a cura di), Foscolo critico – XV Convegno internazionale di Letteratura italiana “Gennaro Barbarisi”, Quaderno di Gargnano – Università degli Studi di Milano, 2012.
7S. Baldi, Letteratura inglese – Romanzi inglesi del Settecento, in C. Guerrieri Crocetti, C. Pellegrini, Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America, Vallardi, Milano, 1958.
8ML. Bignami, Daniel Dedoe, Dal saggio al romanzo, La Nuova Italia – Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, Firenze, 1984.