“Il romanzo in cui si è specchiato un milione di lettori americani”: recita così lo spot ideato da Einaudi per lanciare 2 anni fa Le correzioni: un martellamento pubblicitario di una portata invasiva davvero insolita per un libro, ma che ha sortito i migliori risultati viste le vendite e il tripudio di elogi recensori.
Se non fosse per questo singolare clamore mediatico su Le correzioni non varrebbe la pena di spendere neppure due righe, ma in tempi dove è proprio l’attenzione dei media ad essere il metro di valutazione dell’autorità culturale affrontare “il caso Franzen” è quasi un obbligo.
La stampa non ha esitato a definire questo romanzo un capolavoro, anche se l’unica forma di genio è la bravura dello scrittore americano nell’essere riuscito ad imporre il proprio prodotto come un caso narrativo, spacciando l’adulterato per sofisticato.
Le correzioni è un libro impossibile da leggere senza essere afflitti da una noia profonda. La trama sa di preconfezionato, mentre i temi affrontati sono talmente numerosi e complessi che l’idea di racchiuderli in un romanzo risulta a dir poco superficiale.
Franzen ha la pretesa di raccontarci l’essenza dell’apparenza di un’America che da decenni ha ormai perso l’abitudine di ritrovare se stessa nei romanzi: alle pagine si preferiscono di gran lunga i labirinti delle soap, più beatiful e meno impegnative.
Eppure la sfida lanciata dallo scrittore era proprio questa: riscattare il romanzo sociale proiettandolo nello starsystem dei besteller: un’operazione che lasciava piuttosto dubbiosi se è vero che, dal Gaddis de Le perizie al De Lillo di Underworld, il seguito della narrativa sociale è sempre stato piuttosto marginale. Franzen, invece, da funambolo del Nulla ci è riuscito imponendo le sue “correzioni” ad un milione di lettori americani e raccogliendo commenti critici a dir poco entusiastici.
Merito di un romanzo molto furbo: alla innegabile perfezione della scrittura – che ricorda sin troppo da vicino l’impeccabilità stilistica di Salinger – Franzen ravviva una trama esausta sin dall’inizio coniugando l’universo narrativo di Dos Passos alla visionarietà domestica di John Cheever .
La differenza è che di Salinger Franzen non possiede la magia di sintesi, di Dos Passos mantiene solo gli elementi (tele)novellistici e di Cheever soltanto la superficie riflessa.
Ma è proprio così – correggendo la tradizione letteraria americana rimasticandola – che ha ottenuto il suo capolavoro blockbuster: un prodotto predigerito per masse desiderose di riscattarsi dall’ormai “insostenibile leggerezza dell’essere” lettori di serie b.
Se l’intento può essere encomiabile – un bestseller premasticato di qualità è sempre meglio dei libri di… eco- dall’altra il risultato è fallimentare: “Le correzioni” è una Dinasty dei poveretti, una Dallas amniotica, una soap cartacea con intenti culturali da hard discount.
Se non avete tempo da perdere, ma volete sapere di che tratta Le correzioni rileggete l’incipit di Anna Karenina quando Tolstoj scrive che “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. In due righe sintetizza ciò che Franzen ha cercato di spiegare in 599 pagine. E il seguente “Libertà” non è certo migliore. Franzen anche qui non sfugge ai luoghi comuni: se il primo romanzo è da buttare, immaginate il secondo.