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ODE ALL'AMERICA.

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Un Charles Dickens inedito, un Dickens che, in occasione del suo secondo viaggio negli Stati Uniti nel 1863, ricorda come la “razza anglosassone” debba predominare senza perdersi in inutili scontri. Inghilterra e America devono essere sempre alleati. Nel bicentenario della nascita Satisfiction ricorda Dickens mentre in tutto il mondo si apprestano le celebrazioni.  In Inghilterra, oltre a moltissime edizioni previste di tutti i suoi romanzi, sono in fase di realizzazione tre grandi mostre: alla British Library, al Victoria and Albert Museum (dove sarà esposto il manoscritto originale di David Copperfield) e al Museum of London, mente è attesissimo il film diretto da Mike Newell tratto da Grandi Speranze. 
Il 3 gennaio il quotidiano inglese Telegraph ha preannunciato che il film, oltre che per la sceneggiatura affidata allo scrittore David Nicholls, farà molto parlare soprattutto per un finale a sorpresa, che lo trasformerà in un thriller.
 Si sa che Dickens stesso scrisse due finali per questo capolavoro: uno tremendamente desolante e l’altro romantico e sentimentale ai limiti dell’incredibile. Nicholls ne ha scritto un terzo che è una via di mezzo tra i due.
Satisfiction.me presenta due discorsi, mai pubblicati ad oggi in Italia, tenuti da Dickens in occasione della sua partenza dall’America e tradotti dall’americanista Nicola Manuppelli, già curatore di molti inediti di Dickens, Stevenson, Yeats. 
Quello che traspare è un Charles Dickens impressionato dal sempre maggior successo che i suoi romanzi ottennero anche negli Stati Uniti, ma anche uno scrittore che si fa portavoce dello “spirito inglese d’appartenenza” ad un “nuovo” continente come l’America vista davvero come la terra della libertà e di nuove “Grandi speranze”.
Intanto ovunque è Dickens mania: il 5 gennaio 2012 è stato addirittura battuto da Christie’s lo stuzzicadenti dello scrittore a 10 mila dollari! Pensate a un inedito! Ma Satisfiction, come sempre, ve lo regala. Perché noi di Satisfiction siamo convinti che la vera cultura è entrare nel tempo senza vendersi ai poteri del tempo.  
(Gian Paolo Serino)
 
 
DISCORSO DI NEW YORK, 18 Aprile 1863.
Nella data suddetta Dickens tenne una cena d’addio all’Hotel Delmonico, prima di tornare in Inghilterra. Erano presenti più di duecento persone. Horace Greeley presiedeva il tutto. Fu proprio lui a proporre un brindisi in onore di Dickens e quest’ultimo, per ringraziarlo, si alzò e disse:
SIGNORI, io non posso fare di meglio che prendere spunto dal vostro illustre presidente, e fare riferimento col mio intervento al suo intervento, nel quale parla dell’antico e spontaneo legame che ci unisce. Quando ho ricevuto l’invito da parte di un’associazione privata di membri della stampa di New York per cenare con loro oggi, ho accolto felicemente il bel gesto, con il ricordo grato per una vocazione che un tempo era la mia, e con la lealtà e il senso di appartenenza a una fratellanza che, nello spirito, non ho mai sentito di aver interrotto. Non smetterò mai di attribuire i miei primi successi al duro e severo apprendistato sulla carta stampata, quando ero molto giovane. E i miei figli potranno sempre testimoniare che loro padre era fiero della strada che aveva fatto per arrivare dove è arrivato. Se così non fosse, sarei il primo ad avere una ben scarsa opinione di me, cosa che, forse, nel complesso, non ho. Quindi, signori, per tutta questa serie di motivi, la vostra compagnia non smetterà mai di essere eccezionalmente gratificante e interessante per me. Ma se, supponiamo, questo vostro invito e questa vostra gentilezza fossero come la tenda magica delle Mille e una notte, grande non più di un pugno ma in grado di contenere una moltitudine, ciò nondimeno sarei fiero e onorato di essere il vostro ospite. Vorrei che foste pronti a credere che più i miei sforzi artistici trovano eco sulla stampa americana, più mi appare in tutta la sua evidenza la buona volontà e i sentimenti gentili di questa istituzione nei miei confronti.
Signori, la mia voce ha trovato così tanto ascolto ultimamente in questa terra, e io per più di quattro durissimi mesi invernali ho lottato per nascondere quella che più volte, con una certa ammirazione, mi è stata assicurato essere una vera “tosse americana”: eredità che ho accolto anche con un certo piacere, malgrado avrei preferito essere naturalizzato con altri segni esteriori più visibili. La mia voce ha trovato così tanto ascolto in America ultimamente, che dovrei essere più che soddisfatto e non annoiarvi più, se non sentissi come un dovere già da ora, non solo qui, ma in ogni occasione adatta e dovunque ne abbia occasione, di esprimere la mia più profonda gratitudine per il modo in cui è stato accolto questo mio secondo  viaggio in America, e farmi testimone della generosità e della magnanimità di questa nazione. E vorrei anche dichiarare quanto sono stato sorpreso dai cambiamenti incredibili che ho visto intorno a me da ogni parte: cambiamenti morali, cambiamenti fisici, cambiamenti nella quantità di terre edificate e popolate, cambiamenti nella crescita di nuove grandi città, cambiamenti nella crescita delle città, cambiamenti nell’eleganza e nelle comodità della vita, cambiamenti nella stampa, senza il cui avanzamento nessun progresso può essere mai possibile. Né sono io, credetemi, così arrogante da pensare che in venticinque anni non siano avvenuti anche cambiamenti in me e che non avessi niente da imparare, né impressioni particolari da correggere, quando venni qui la prima volta.
E, signori, questo mi porta a un punto su cui, da quando sono arrivato qui lo scorso novembre, ho osservato un rigoroso silenzio, anche se a volte ho avuto la tentazione di infrangerlo, ma che ora, se voi me lo concedete, voglio confidarvi. Anche la stampa, essendo una cosa fatta da uomini, a volte si può sbagliare o essere male informata, e penso anche di avere in uno o due casi raccolto alcune informazioni riguardo alla mia persona non precise. Anzi, di tanto in tanto sono rimasto più sorpreso dalle notizia sulla stampa riguardanti me stesso, che da tutte le altre mai lette nella mia esistenza. Così, il vigore e la perseveranza con cui nei mesi passati ho raccolto e lavorato sodo a un nuovo libro sull’America mi hanno molto stupito, visto che per tutto quel tempo i miei editori su entrambi i lati dell’Atlantico sono stati perfettamente a conoscenza del fatto che io avessi dichiarato di non avere alcun motivo preciso che mi inducesse a scrivere un libro del genere. Ma ciò che ho inteso, ciò che ho deliberato (e questa è la confidenza che intendo farvi) è che, al mio ritorno in Inghilterra, intendo scrivere, per il bene dei miei connazionali, questa testimonianza dei cambiamenti giganteschi avvenuti in questo paese, così come ve ne ho accennato questa sera. E anche per ricordare che, ovunque sono stato, nei più piccoli luoghi così come nei più grandi, sono stato ricevuto con una cortesia insuperabile, con delicatezza, dolcezza, ospitalità, considerazione e un insuperabile rispetto per tutte le volte che qui mi isolavo per seguire la mia vocazione, e per il mio stato di salute. Questa testimonianza, finché vivrò e finche i miei eredi saranno in possesso dei diritti dei miei libri, farò in modo che venga pubblicata come una appendice a ogni copia dei miei libri in cui si parli d’America. Farò io stesso questo, e farò in modo che venga fatto, non solo per puro amore o gratitudine, ma perché lo vedo come un atto di semplice giustizia e onore.
Signori, il legame fra i miei sentimenti e il mio interesse verso l’America e quello verso i miei connazionali mi sembra naturale, ma, se non è così, ho comunque un motivo. Mi è stato chiesto in questa stessa città, lo scorso Natale, se un americano non potesse trovare qualche svantaggio a visitare l’Inghilterra come straniero. L’idea che un americano possa essere considerato uno straniero, in qualsiasi modo sia detta o pensata, mi risultò così assurda, che per un momento, allora, me ne sentii come sopraffatto. Non appena mi ripresi, risposi che per anni e anni avevo sempre sperato di avere tanti amici americani e ricevere il maggior numero di visitatori americani come quasi ogni persona che viveva in Inghilterra, e che la mia esperienza ripetuta, e fortificata dalle esperienze degli altri, era che fosse sufficiente in Inghilterra essere un americano per essere ricevuto con il più pronto rispetto e riconoscimento dovunque. Subito, fra una mezza dozzina di persone, improvvisamente intervennero in due, uno era un signore americano, con un certo gusto per l’arte, che, trovandosi una domenica fuori dalle mura di un castello inglese, famoso per i dipinti, si era visto rifiutare l’ammissione in base alle regole in vigore quel giorno, ma,  dato che era un americano in viaggio, aveva subito vistosi concessa non solo la pinacoteca, ma tutto il castello a sua disposizione. L’altra era una signora di Londra che da sempre aveva il grande desiderio di vedere la famosa sala di lettura del British Museum. Le era stato detto dalla famiglia inglese con la quale si trovava che era purtroppo impossibile, perché il luogo era chiuso per una settimana, anche se lei si sarebbe fermata solo per tre giorni. Beh, quella signora andò al museo, come lei stessa mi raccontò, si presentò da sola al cancello e disse di essere una signora americana: la porta si aprì, come per magia. Sono a malincuore costretto ad aggiungere che lei sicuramente era giovane ed estremamente bella. Eppure, il portiere dell’edificio è un uomo pigro e in carne, per come l’ho osservato, e non facilmente impressionabile.
Ora, signori, mi riferisco a queste inezie come ulteriore garanzia per voi che gli inglesi che si batteranno umilmente, come farò io, per far sì che in Inghilterra  sia sempre  fedele  all’America così come lo si è verso l’Inghilterra stessa, non hanno giudizi preconcetti contro cui combattere. Ci sono stati, ci sono e probabilmente ci saranno punti di differenza fra questi due grandi popoli. Ma è ben diffuso in Inghilterra il sentimento che questi due popoli sono essenzialmente uno, e che spetta a loro congiuntamente sostenere la grande razza anglosassone, a cui il nostro presidente ha fatto riferimento, e tutti i suoi grandi successi di fronte al mondo. E se io so qualcosa dei miei connazionali, come loro mi danno credito di sapere, beh allora so, signori, che il cuore inglese si sente eccitato dallo svolazzare di quelle bandiere a stelle e strisce, quanto da nessun’altra bandiera tranne la propria. Se conosco i miei concittadini per quanto riguarda i loro sentimenti verso l’America, l’inizio di questo rapporto non è quello che Sir Anthony Absolute raccomanda per gli amanti, ovvero “un po’ di avversione”, ma una grande simpatia e un profondo rispetto, e qualunque sia la scarsa sensibilità del momento, o la scarsa passione a livello ufficiale, o politico, o questo o quell’altro motivo, ascoltate ciò che vi dico, che la prima e duratura e più grande considerazione popolare in Inghilterra è la costruzione generosa della giustizia.
Infine, signori, e dico questo a vostro vantaggio, credo che per la grande maggioranza di menti oneste di entrambe le parti, non può essere assente la convinzione che sarebbe meglio per questo mondo essere lacerati da un terremoto, schiacciati da una cometa, sommersi da un iceberg, e abbandonati fra volpi artiche e orsi, piuttosto che assistere allo spettacolo di queste due grandi nazioni, ognuna delle quali ha, a suo modo e in momenti diversi, lottato così duramente e con tale successo per la libertà, schierate l’una contro l’altra. Signori, non potrò mai ringraziare a sufficienza voi e il vostro presidente per la vostra gentile accoglienza, e per aver dato ascolto a queste mie povere osservazioni, ma, credetemi, io vi ringrazio con il massimo fervore di cui la mia anima è capace.
(Traduzione di Nicola Manuppelli)
 
 
 
DISCORSO DI BOSTON, 8 Aprile 1868.
Dickens diede la sua ultima lettura a Boston, nella data sopra indicata. Al suo arrivo una sorpresa lo attendeva. Il leggio dal quale avrebbe dovuto parlare era stato decorato con fiori e foglie di palma da alcune delle signore della città. Egli si complimentò per quel grazioso omaggio con le seguenti parole: “Prima di consentire al dottor Marigold di raccontare la propria storia a suo modo, mando un bacio a quelle belle e gentili mani sconosciute, che hanno così splendidamente decorato il mio tavolo questa sera.” Dopo la lettura, Dickens tentò invano di ritirarsi. Ma tutti continuavano a chiedergli “ancora una parola”. Tornò al leggio, pallido e con una lacrima negli occhi, e la voce segnata dalla commozione, e parlò come segue… (Nota del traduttore Nicola Manuppelli).
SIGNORE E SIGNORI, l’accoglienza generosa che ha accompagnato questo mio viaggio americano, e che mai potrò cancellare dalla memoria, ha avuto inizio da qui. E da qui, allo stesso modo, inizia la mia partenza dall’America – perché vi assicuro che mai, fino a questo momento, mi sono reso conto di essere arrivato ai saluti. In questa nostra breve vita è triste affrontare qualsiasi tipo di cosa per l’ultima volta, e non posso nascondervi, anche se la mia fronte sarà ben presto rivolta verso la mia Inghilterra, e verso tutto ciò che me la rende così cara, che è triste per me prendere atto che fra pochi istanti a partire da ora, questa magnifica sala e tutto ciò che essa contiene svaniranno dalla mia vista per sempre. Ma è una consolazione per me che lo spirito di questi volti luminosi, la loro perspicacia, le pronte risposte, la generosità e l’accoglienza che hanno reso tanto piacevole questo luogo rimarranno, e posso giurarvi che tale spirito mi accompagnerà finché i sensi e i miei sentimenti rimarranno vivi.
Non dico questo pensando solamente alle tante amicizie private che hanno reso per anni e anni Boston un posto meraviglioso e per me indimenticabile: lo dico semplicemente in ricordo e in omaggio al grande calore con cui tutti voi che ho davanti mi avete accolto.
Signore e signori, io desidero porgervi i miei più sentiti, grati e affezionati saluti, a ciascuno di voi.
(Traduzione di Nicola Manuppelli)

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