È un po’ di tempo che in Italia è sempre più diffuso l’antropotipo del ‘poeta con posteggia’, come chiamano a Napoli l’orchestrina girovaga che allieta i pranzi in pizzeria.
Sia chiaro: non mi riferisco ai colleghi, e ce ne sono di eccellenti anche in Italia, che fanno spoken word, o spoken music. No. Mi tirerei la zappa sui piedi, è quello che faccio anch’io.
Mi riferisco piuttosto agli ormai tanti (tantissimi, troppi) poeti ‘tradizionali’, ‘lineari’, paladini della poesia scritta o morte, quelli sempre pronti a bollare con un ghigno di sufficienza ogni timida avance a proposito delle radici e delle caratteristiche orali della poesia, quelli per i quali la parola ‘cantautore’ è una sorta di insulto, un marchio d’infamia letteraria.
Ecco, proprio loro, i Silenti Custodi dell’Arte, non paghi di affollare con la loro incongrua presenza festival e rassegne di mezz’Ytaglia, ora han pensato bene di portarsi dietro anche tamburi, flauti e chitarrini e se ne vanno in giro con musicista al seguito…
Voci ben informate mi hanno sussurrato di un celeberrimo poeta milanese, paladino della poesia muta, anzi mutissima, praticamente omertosa, che attualmente girerebbe palchi e pedane accompagnato da chitarrista. Sarà vero?
So per certo, però, che il poeta più pio d’Ytaglia ha messo su addirittura un’associazione, o fondazione, o il diavolo solo sa che ‘one’, dedicata ai rapporti tra musica e poesia, a cui partecipano tutti, poeti lineari e cantautori, ma che singolarmente ignora chi spoken word e spoken music li fa da anni.
Il tutto ovviamente con la complicità di uno dei ‘più poetici cantautori’ nostrani.
[Parentesi aperta: ma che significato avrà questo trasformarsi della poesia, da che era sostantivo, poesia appunto, in aggettivo, poetic*, attribuibile praticamente a tutto, film, musica, romanzi, quadri? A me pare segnale infausto. Parentesi chiusa.]
Dirò più: vi sfido a trovare un qualsiasi festival, o festivalino, o rassegna, o rassegnetta, o meeting qualsivoglia di poesia, magari frequentato, sopra e sotto il palco, esclusivamente da pasdaran della poesia neo-orfica, post-simbolista, mistica e certamente muta-mutissima, praticamente a labbra cucite ed acqua in bocca, in cui non ci sia l’intermezzo musicale, l’accompagnamento in do minore per i versi berciati dagli abbeverati alla Fonte Cavallina (che parola orribile ‘accompagnamento’, nevvero? Sembra che la poesia sia una vecchia demente, un po’ ebefrenica, che va accompagnata: come se avesse bisogno di una badante in chiave di violino: brrrr che orrore!).
A cosa serve dunque tutta codesta musica?
A cosa, visto che Lorsignori son sempre lì ad affermare che rapporto tra musica e poesia non può essercene, visto che la poesia ha già la propria, di musica?
Perché, coerentemente, non eseguono quella e chiamano invece in soccorso ottavini, corni, arpe e putipù?
Che si tratti, parafrasando Gadda, di poeti “muti”, sì, ma “muti di guerra”?
A pensarci su bene sembra quasi che i siparietti musicali debbano dare un attimo di respiro ai poveri spettatori, provati dalla noia nociva e mortale del precedente ascolto di versi, magari ‘maledetti’, ma certamente maldetti, una boccata d’ossigeno che permetta loro la successiva apnea: hop! nuovo poeta, turare il naso e immergersi sino alla prossima boccata d’ossigeno, o meglio di note.
Musica da intrattenimento, da posteggia, insomma…
E voi, ottimi musicisti, perché qualche volta non ci mandate a quel paese, quando vi invitiamo ai nostri reading, spesso con il compito di guadagnare quegli applausi e quel pubblico che da soli i nostri balbettii mai meriterebbero?
E voi, ottimi poeti ‘lineari’, paladini di un’arte muta per scelta ed elezione, non fareste meglio a dire: no, per me la poesia è una roba che va letta a mente, in silenzio, le sue caratteristiche formali, la sua essenza, lo richiedono (come in realtà fate) e poi comportarvi di conseguenza (come non fate affatto), rifiutando garbatamente ogni invito a darne pubblica esecuzione in proprio (e magari anche in altrui, tanto per esser conformi all’assunto)?
Se non siamo artisti, poeti che fanno spettacolo di poesia, mentre diciamo i nostri versi su un palco, noi, balbuzienti lì, cosa siamo? Piazzisti di ottave, informatori poetico-librari, comparsanti in endecasillabi?
Ma, se siamo artisti, se stiamo facendo spettacolo, allora dobbiamo esserlo sino in fondo, farlo il meglio possibile, anche eseguendo i nostri testi su quel palco.
Il palco è un territorio minato, uno slum duro, dove non ci sono salvacondotti speciali per nessuno, poeti compresi, fossero pure in pericolo di estinzione, come i panda.
Marc Kelly Smith, l’inventore del Poetry Slam, ha detto una cosa piuttosto sensata: un poeta che fa spoken word, o spoken music, deve saper fare bene tutto ciò che fa un poeta ‘lineare’ per scrivere una poesia che funzioni su carta e in più deve anche essere capace di eseguirla bene su un palco.
Mi pare incontrovertibile….
Lello Voce