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Henri Barbusse inedito. Il genio amato da Hemingway.

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Nel luglio 1914 scoppia la prima guerra mondiale, e Henri Barbusse decide di andare in trincea da volontario, subito, nonostante i suoi quarant’anni e alcuni problemi ai polmoni. Poeta, scrittore, giornalista, riuscirà a raggiungere la prima linea solo qualche mese più tardi, a dicembre, unendosi a un reggimento di fanteria. Combatterà per due anni. Nel 1916 pubblicherà Le Feu, romanzo “antimilitarista”, acclamato dalla critica e dal pubblico come la prima valida opera letteraria sulla Grande Guerra, e premiato col Goncourt. L’anno seguente, il Gide dei Journals ne apprezzerà con riserve alcuni capitoli, irridendone altri.
In trincea Barbusse aveva un taccuino. Pubblicato a stralci mezzo secolo dopo, in Francia il Carnet de guerre è ormai diventato un’appendice irrinunciabile a Le Feu. Scritte un po’ a matita e un po’ a penna, a tratti indecifrabili, le sue pagine ci offrono piccole cronache di guerra, visioni, immagini e spunti sulla vita al fronte, testimoniando la genesi “artistica” del romanzo. All’inizio Barbusse è un uomo stanco, spaesato, che osserva gli orrori della guerra e non capisce. Poi però, man mano che si scorrono le righe, la sua scrittura sembra quasi rimbalzare, animarsi, e gli appunti diventano riflessioni, personaggi, storie, persino titoli di capitoli e strutture di racconti. D’un tratto il taccuino si ravviva; Barbusse sta immaginando. Elenca ruoli e situazioni, annota pensieri, storielle, frasi in argot, inventa personaggi. Così, in trincea, nel fango, fra pile di cadaveri e feriti, la realtà di Barbusse si trasforma improvvisamente in narrazione, e lo salva.
Parecchi anni dopo, introducendo l’antologia di racconti Men at war, Hemingway scriverà che Barbusse è stato il primo a ribellarsi contro l’inutile massacro – “the gigantic useless slaughter” – dei soldati, riconoscendo in lui un capostipite della letteratura di guerra.
Edoardo Pisani
 
 
TACCUINO DI GUERRA.
Ovunque cadaveri mummificati, scheletrici, ridotti allo stato di piccoli ammassi mischiati a fango rossastro. Vediamo suole che sporgono, e a volte piedi o pezzi di stoffa che emergono dalla terra e indicano un cadavere. I tedeschi ne hanno lasciati marcire una quantità esorbitante, mentre occupavano queste terre. C’è un volto simile a Ramesse II che sbuca da una borsa tutta tagliuzzata, e sotto tibie, femori, ossa di mani o piedi raggrinziti, stretti intorno a gonfiori sospetti, come ossicini. Da uno stralcio di stoffa sfilacciata spunta un frammento di colonna vertebrale, cosparsa di bitume. No, questi non sono più cadaveri, ma ammassi di robaccia secca, che sembrano essere stati aggiunti a oggetti fuori uso – a tazzine, a posate, a scatoloni. Senza contare gli innumerevoli rifiuti, i barattoli di provviste sparpagliati ovunque, che i soldati hanno lasciato ammucchiare intorno all’accampamento.
Quanto ai morti degli attacchi del 28, li trasportiamo tutti i giorni, e tutti i giorni li sotterriamo. Ne abbiamo una schiera intera, ai piedi dell’Alveolo degli Zuavi. Sono simili a quelli che ho visto l’altro ieri, e ieri, allineati sulla strada di Béthune, cosparsi di fango, orribilmente rovinati e mutilati, con il viso gonfio, nero come la testa di un negro, e con la carne tumefatta e piena di insetti e vermi, raccattati a mucchi. Prendiamo loro i fucili.
***
Il pendio degli Zuavi. Arrivato con la pioggia battente. Gambe e piedi fradici, l’acqua penetra dai ginocchi. Le pareti delle trincee crollano. È l’inondazione, il diluvio. La linea è sommersa.
Un uomo completamente ricoperto di melma, dalla testa ai piedi, urlante, tozzo e giallo, con le mani inguantate, corazzato dal fango. Ci racconta la spaventosa storia degli uomini rimasti nei cunicoli, in prima linea. L’acqua sale fino ai ginocchi, fino alle anche. Le tende sprofondano. Non possiamo restare immobili nelle gallerie, perché poi sarebbe impossibile muoversi. Non riusciamo neanche ad orientarci; se non ci fossero i lampi dell’artiglieria, affogheremmo subito.
***
La sentinella veglia nella trincea sotto le stelle, pensando agli uomini. Gli uomini, tutti gli uomini, tanti quanti le stelle, così distanti gli uni dagli altri, così sconosciuti. Questo steccato di buio e sangue è spaventoso. Si può fare qualcosa contro di esso? Sì, bisogna che gli uomini si cerchino. Bisogna che si sbarazzino delle cattive lezioni inculcate da coloro che non sanno, o da coloro che vorrebbero lasciarli nell’ignoranza, offuscando le loro solitudini imprigionate. Bisogna osservare le cose con calma, con precisione e con saggezza, seguire non dei dogmi ma delle idee – e non idee astratte e incomprensibili, bensì idee chiare, profonde, vive.
Ammetti di non sapere bene ciò che fai, mentre vegli nell’oscurità e cerchi di intravedere qualche movimento sulla pianura. In fin dei conti non sai affatto perché sei qui. Amico mio, in fondo non c’è nessun valido motivo per restare qui. Ma in questo momento siamo tutti presi in un ingranaggio. Quindi bisogna continuare, e vincere. Però bisogna anche saper guardare oltre, più in là, più in grande, oltre i soliti interessi dell’oggi, piccoli dettagli storici in seno a una questione eterna.
Adesso non leggi giornali. Non potresti. Ma più tardi diffida di chi cerca di farti credere che i popoli appartengono a specie diverse, e che ce ne sia uno che opprima il loro; se è valido per gli uni, è valido pure per gli altri, e sarà guerra per sempre.
***
Ogni soldato è, a causa della moltitudine, invisibile e silenzioso.
La Verità. Il campo di battaglia. La grande notte. L’uomo verme. Tanti uomini-vermi. Tutto questo si agita nell’incendio invisibile della febbre. Al primo mattino fumano come macerie, chiamandosi; ce n’è uno che si scrolla, che cade più in basso. Sono l’origine della nebbia?
Gli uomini visti da lontano: piccole biglie nere, che fanno fiori in perle e fili di ferro, da appendere sulle tombe.
***
Combatti per qualcosa.
Per qualcosa di grande, di importante, di sublime.
Per qualcosa di semplice. Bisogna che te lo dicano forte e chiaro, affinché tutti lo sentano. In risposta a… In risposta ai morti, e alle grida dei feriti: vediamo l’intelaiatura profonda e grandiosa delle cose umane.
***
Racconto.
L’infermiera nell’ospedale. Lui l’ama e, guarito, la porta via con sé. Poi non funziona più e alla fine lei ridiventa infermiera e ritorna al suo ospedale…
***
L’incubo.
Questa sarà la parte più corta. Cinquanta pagine.
1:150 2:50 3:100
Quindici giorni: ecco tutto il mio periodo in trincea.
Arrivo al ricovero delle battaglie.
Quelli che si lavano e di cui vediamo le ferite, gli sfregi, le cicatrici, i rattoppi; anche quelli che restano apparentemente “intatti”.
L’arrivo al ricovero. Non piove, fa molto freddo. È triste, triste. Sulla pianura, tutto è cupo. Soltanto la gloria potrebbe illuminarci.
Gli unici personaggi che abbiano delle sembianze di idee politiche: Brisbille e il Catoblepa. Gli altri sono conservatori, non tanto per qualche nozione precisa, quanto per la tendenza del loro spirito profittatore, immediato e cieco, o per il modo in cui il loro destino si compie.
Gli scomparsi.
Morti che vivono di morte.
Morti che ammazzano. Quando vuoi prendergli la cintura, la granata scoppia. Il morto che imbraccia un fucile; un soldato afferra la canna per sfilarglielo, tira, e il dito rigido del morto schiaccia il grilletto, ammazzandolo.
La guerra. Diario di uno squadrone. 1915.
I. La Visione
II. Le H nell’acqua
III. La Discesa
IV. Volpatte e Fouillade
V. L’Acquartieramento
VI. L’Abitudine
VII. Imbarco
VIII. Il Permesso
IX. La Grande collera
X. Argoval
XI. Il Cane
XII…
Quello che non parla quasi mai. A ogni istante, sembra voler decidersi a parlare. Ma non si decide. Sappiamo ciò che sta per dire; poi però pensa che non ne vale la pena, inghiotte tutto e tace. Il testimone muto come cacciachiodo della realtà, più che il parlatore.
da Henri Barbusse, Carnet de guerre
L’unica opera oggi disponibile di Barbusse è Le feu, Il fuoco (Il fuoco), già pubblicato da Sonzogno nel 1918, ma senza alcun successo (Henri Barbusse Il fuoco).

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