Dario Borso indaga sulla “fortuna” italiana di uno scrittore come Arno Schmidt e un “parere” di Cesare Cases sullo scrittore tedesco. In un momento in cui la casa editrice Zandonai ha pubblicato meritoriamente Paesaggio lacustre con Pocahontas, splendido testo di Schmidt tradotto dallo stesso Dario Borso, scelto tra l’altro dai lettori di Satisfiction come miglior libro del 2011.
Il numero di luglio 1966 della rivista “Il Menabò”, dedicato ai nuovi narratori tedeschi, offriva come introduzione un lungo saggio panoramico di Hans Magnus Enzensberger, Letteratura come storiografia. Perciò si è sempre detto che curatore del numero era Enzensberger stesso, senonché… Nella recente raccolta Scharmützel und Scholien (Suhrkamp 2009), il saggio è riportato come lezione tenuta a Francoforte nel 1964. Non solo: gli autori trattati da Enzensberger, tutti della Repubblica Federale Tedesca, non coincidono affatto coi nove presenti poi effettivamente (anzi, il numero è per 1/3 occupato da autori dell’Est). Infine, il giudizio espresso da Enzensberger sui singoli autori presenti non coincide affatto con quello delle anonime schede bio-bibliografiche, e in un caso addirittura stride: Arno Schmidt. Nell’introduzione è detto che “i più arditi, conseguenti risultati dell’ultima fase della letteratura tedesca” sono i libri di Schmidt, mentre la scheda suona:
Arno Schmidt è il più anziano dei novissimi tedeschi. Il suo primo libro, il Leviathan, è uscito nel 1949, con una tiratura di duemila esemplari. Dieci anni dopo questa prima edizione, stampata sulla cattiva carta del dopoguerra, non era ancora esaurita. Oggi bisogna cercare nelle botteghe di libri antichi, per trovare un esemplare della prima edizione, e bisogna pagarlo caro.
Non c’è da meravigliarsene. I tedeschi, congedati nel 1948 con una “quota pro capite” di 20 marchi e spediti così nelle lunghe vacanze della congiuntura, non potevano che scuotere il capo sulla pubblicazione, unica nel suo genere, del Leviathan. Quel libro era in anticipo di dieci anni. Non aveva niente a che fare col probo realismo della “rieducazione”, dell’onesta e limitata “letteratura delle rovine” degli ultimi anni quaranta. Qui c’era uno che non si accontentava delle buone intenzioni, che applicava alla lingua un trattamento radicale. E Arno Schmidt dev’essere giudicato dalla sua lingua, non dalle sue idee. La vera provocazione non proviene dalle grandinate di insulti di cui i suoi libri sono cosparsi (e che non esprimono molto di più della rabbia impotente dell’individuo di fronte alla superiorità delle catastrofi sociali), ma dalla sua sintassi. Certi concetti critici che si sono formati sulle opere di Schmidt (come quelli della molatura del testo e del reticolo) sono oggi diventati una cosa ovvia per la prosa tedesca avanzata, e autori come Helmut Heissenbüttel o Jürgen Becker, che sono determinanti per la situazione della letteratura tedesca, devono molto al suo modello.
Schmidt è rimasto fino ad oggi uno stravagante. Vive in una casetta nella Landa di Luneburgo, circondata di filo spinato; diffidente, altezzoso, un anarchico piccolo-borghese, curvo su schedari e antiche pandette. Dopo il Leviathan ha scritto molto. I suoi libri da Brand’s Haide (La landa di Brand, 1951) e Aus dem Leben eines Fauns (Dalla vita di un fauno, 1953) fino a Kaff, auch Mare Krisium (1962) e Kühe in Halbtrauer (Vacche in mezzo lutto, 1964) sono rimasti impopolari. Negli ultimi anni Schmidt non ha guadagnato nuovo terreno, imita se stesso, è diventato strambo, un eccentrico, invasato anacoreta della letteratura, i cui inizi segnano anche il culmine di ciò che gli era dato. Dovrà ancora succedergli di venire assunto fra i classici per i suoi primi scritti, e per gli ultimi nell’ambito della letteratura amena d’avanguardia. Non c’è modo d’aiutarlo, e nella società tedesco-occidentale – sia detto a suo onore – non c’è posto per lui.
Insomma, chi curò realmente il numero? Enzensberger no, il direttore Vittorini no che era morto da mesi dopo lunga agonia, il condirettore Calvino nemmeno che sapeva solo di francesi, il redattore Raffaele Crovi neanche parlarne… Essendo “Il Menabò” pubblicato da Einaudi, m’è venuto giocoforza da pensare al plenipotenziario Cesare Cases, e così, scartabellando all’Archivio Einaudi di Torino, ho scoperto questo suo parere editoriale, del 28 agosto 1968:
Kühe in Halbtrauer è deludente. Sono raccontini molto brevi, ambientati per lo più nel solito ambiente di S. (la landa di Luneburgo) con i soliti personaggi che sono variazioni autobiografiche (uno che è lui, un paio di amici, le loro donne, in forma di campeggiatori o villeggianti o residenti stabili in uno dei soliti villaggi) e i soliti riferimenti culti e la solita contrapposizione tra civiltà industriale e ambiente contadino. Sono così corti che non si fa a tempo a immedesimarsi nelle condizioni particolari della situazione che il racconto (se così si può chiamare) è già finito.
Tutto questo c’è naturalmente anche in Kaff auch Mare Crisium solo che essendo questo il più lungo e ambizioso tentativo di S. c’è tutto il tempo di inquadrare e capire i personaggi […]. Nel complesso si tratta di un’enciclopedia dei motivi e delle ricerche letterarie di S., enciclopedia relativamente unitaria e ben congegnata. E siccome S. ripete eternamente le stesse cose, il meglio sarebbe tradurre l’enciclopedia.
Ovviamente, date queste premesse, non se ne fece niente. Come con Nietzsche, l’Einaudi si sarebbe rivelata allergica a cose troppo fuori dal normale: solo che Nietzsche trovò l’Adelphi, Arno invece la via di casa.
Dario Borso