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Enrique Vila-Matas in Colombia. Inedito in Italia.

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Satisfiction pubblica – per la prima volta in Italia – uno dei testi fondamentali dell’opera di Enrique Vila-Matas, Autobiografia capricciosa, curato e introdotto da Edoardo Pisani.
“E se scrivere fosse, nel libro, farsi leggibili per tutti, e indecifrabili per se stessi?”
Così scrive Vila-Matas in una pagina di Dublinesque, riprendendo una frase di Maurice Blanchot e prestandola al suo Samuel Riba, editore colto e buffo, malato di letteratura. Ma la frase sembra rimbalzare sul personaggio e tornare indietro, rivolgendosi all’autore. Perché, tra voci di altri scrittori e citazioni reinventate o false, le opere di Vila-Matas sono davvero “indecifrabili per se stesse”, e sfuggono a qualsiasi definizione.
Pare che Vila-Matas sia nato a Barcellona nel 1948, però potrebbe anche essere nato in Svizzera nel 1878 o in Portogallo nel 1888, come i “suoi” Walser e Pessoa. Potrebbe essere nato con Joyce, con Rilke, con Beckett, con Duchamp, con Dalí, con Benjamin, con Hemingway, con Borges, con Perec, con Savinio, con la Duras, con Magris, con Tabucchi e via di seguito: i suoi libri compongono una vera e propria sfilata di artisti, rielaborando opere e biografie, e inseguendo fantasmi letterari. Quando cita, Vila-Matas non si limita a ripetere le frasi di altri scrittori, ma se ne impossessa, ci gioca, le rende sue, le cambia. Nella raccolta di racconti Hijos sin hijos, per esempio, riporta un passo dal diario di Kafka, dell’agosto 1914: “Oggi la Germania ha dichiarato guerra alla Russia. Nel pomeriggio, sono andato a nuotare.” Qualche anno più tardi, intervistato da Juan Villoro, Vila-Matas racconterà divertito di come da allora molti critici spagnoli abbiano cominciato a citare ovunque la “famosa frase di Kafka”, in realtà non del tutto sua. Kafka scriveva, infatti: “Nel pomeriggio, scuola di nuoto”, e non “sono andato a nuotare”. Una differenza trascurabile, si dirà. Ma è proprio nella distanza tra “scuola di nuoto” e “sono andato a nuotare” che sembra divertirsi – o meglio: sguazzare – la penna ironica e ribelle di Vila-Matas.
Nel 2006 Vila-Matas sarà ospite del festival letterario Hay Festival, in Colombia. Per l’occasione, accetterà di scrivere un testo che in qualche modo “accompagni” la sua presenza, un brano autobiografico. Con la stessa prosa a zigzag de Il mal di Montano o del Dottor Pasavento, racconterà di date e coincidenze, di “autofinzioni” e ricordi inventati. Ne verrà fuori questa Autobiografia capricciosa, nella quale l’autore si mostra e si nasconde di continuo, come i suoi personaggi, timido e sfacciato al tempo stesso. “La parte migliore della biografia di uno scrittore” scrive a un certo punto, parafrasando Nabokov, “non è la cronaca delle sue avventure, bensì la storia del suo stile.” Ma per Vila-Matas lo “stile letterario” equivale a uno stile di vita, e quindi a un’avventura a sé, a un viaggio, a una passeggiata. E in effetti si può dire – magari riprendendo Canetti e strizzando l’occhio a Walser, grande passeggiatore – che Vila-Matas non “scrive” i suoi libri, li percorre. E a noi lettori non resta che percorrerli con lui, o guardarlo allontanarsi.
Vila-Matas riutilizza spesso i propri articoli, e il tema dell’autofinzione sarà ripreso e arricchito – tirando in ballo anche Gombrowicz, ennesimo “fingitore” – in Dalla città nervosa. Pubblicato nella rivista colombiana Arcadia e in Vila-Matas portátil, un escritor ante la crítica (Editorial Candaya), Autobiografía caprichosa è assolutamente inedito in Italia.
Edoardo Pisani
 
 
Autobiografia capricciosa
Mi suggeriscono di scrivere un’autobiografia capricciosa.
“La stuzzica?” aggiunge chi me lo ha proposto.
La richiesta arriva dalla Colombia.
Mi stuzzica, certo. La scriverò.
Sono nato a Barcellona, in Spagna, l’ultimo giorno del mese di marzo del 1948. Nove giorni dopo, l’assassinio di Jorge Eliécer Gaitàn scatenò i disordini del Bogotazo in Colombia. Fu il primo avvenimento importante dopo il mio arrivo al mondo. Lo seppi molti anni più tardi, quando indagai ciò che accadeva nel mondo in quel primo mese di aprile della mia vita. Il fatto curioso è che nel 1993, durante le prime ore della mia prima visita a Santafé di Bogotá, una placca in una strada centrale della città richiamò potentemente e inspiegabilmente la mia attenzione. Leggendo la scritta, scoprii che lì, in quel posto, era stramazzato Eliécer Gaitàn. Mi resi conto che in qualche modo quella placca mi aveva attratto nel corso di tutti quegli anni, nell’attesa che un giorno – come alla fine era successo – mi ci piantassi di fronte e la vedessi. In maniera del tutto casuale, e malgrado la notevole distanza in chilometri, avevo finito per calpestare lo scenario del primo evento storico che aveva avuto luogo dopo la mia nascita.
Sono nato a Barcellona, in via de Lauria 114, di fronte al cinema Metropol. Ai miei cinque anni la famiglia traslocò al 343 di via Roséllon, presso il Paseo de San Juan. Nel 1968 entrai come redattore nella rivista di cinema Fotogramas. E nel 1973 pubblicai il mio primo libro. L’anno seguente, mi installai a Parigi, dove vissi due anni e scrissi il mio secondo romanzetto, L’assassina letterata (su questo periodo girerò più tardi il mio libro autobiografico Parigi non finisce mai, pubblicato a Barcellona nel 2003). Nel 1976 tornai a Barcellona e conobbi Paula de Parma. Il consenso del pubblico giunse nel 1985, con Storia abbreviata della letteratura portatile. Seguiranno altri titoli, di cui forse il lettore avrà sentito parlare: Suicidi esemplari, Il viaggio verticale, Bartleby e compagnia, Il mal di Montano e Dottor Pasavento, tra gli altri. La mia opera è tradotta – mi piace dire i nomi di tutte queste lingue, in qualche modo mi sembra di viaggiare intorno alla mia stanza – in francese, inglese, tedesco, italiano, russo, portoghese, giapponese, greco, danese, serbo, svedese, olandese, ungherese, ebraico, brasileño, turco, norvegese, polacco, finlandese, ceco, rumeno, sloveno, croato, slovacco, bulgaro, cinese. Per un totale di 26 lingue. È una situazione che presto o tardi cambierà, immagino. Il 27 è il mio numero fortunato.
Considero – come diceva Nabokov – che la parte migliore della biografia di uno scrittore non è la cronaca delle sue avventure, bensì la storia del suo stile. E il mio stile è andato evolvendosi lentamente, fino a ciò che alcuni chiamano l’autofinzione, neologismo creato nel 1977 dal professore e romanziere francese Serge Doubrovsky.
Questo è tutto ciò che so sull’autofinzione.
Di colpo arrossisco. Mi accorgo di dover chiedere scusa, perché so alcune cose in più sull’argomento. Vedete un po’ come sono fatto. Quasi senza rendermene conto, ero già partito con l’autofinzione. Sì, so alcune cose in più. So, per esempio, che l’autofinzione è un’autobiografia sospetta. E so pure che, molti anni prima di aver sentito parlare di autofinzione, avevo scritto un libro intitolato Ricordi inventati, in cui mi appropriavo di ricordi altrui per costruire i miei ricordi personali. Ancora oggi non so se ciò fosse autofinzione o meno. Il fatto è che col tempo quei ricordi sono diventati completamente veri, per me. Sarò più chiaro: sono i miei ricordi.
Ebbi i miei problemi, questo sì, quando conobbi Antonio Tabucchi, cui avevo rubato i ricordi di Porto Pim, nelle Azzorre. Ma Tabucchi la prese bene, e diede un altro giro di vite alla faccenda, trasformando i ricordi che gli avevo rubato in suoi ricordi inventati. Questo doppio giro di vite non ha ancora un neologismo che lo definisca, e io credo che sia meglio così. Non c’è motivo di dare un nome a tutte le varianti di questo supposto nuovo genere, e dico “supposto nuovo genere”, perché di fatto già Dante o Rousseau lo praticavano.
Se ci atteniamo a ciò che disse Borges, Dante ha scritto l’intera Divina Commedia solo per potervi includere di tanto in tanto le scene dei suoi incontri con l’irrecuperabile Beatrice, il cui sguardo soleva colmarlo di intollerabile beatitudine. Beatrice, che si vestiva di rosso. Beatrice, cui aveva tanto pensato da stupirsi che alcuni pellegrini incontrati una mattina a Firenze non ne avessero mai sentito parlare. È esistita veramente Beatrice? L’ombra di un lieve sospetto cala su di lei. E un’altra su Dante. Non è che aveva dei ricordi inventati?
Temo davvero che l’autofinzione l’abbia inventata Dante.
“La verità ha la struttura della finzione” diceva Lacan. E di certo Dante avrebbe sottoscritto del tutto questa frase.
 
Enrique Vila-Matas
 

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