Stella Morrison è una donna che ha tutto: elegante, affascinante, sposata a un membro del parlamento, madre devota ma non ossessionata. Eppure Stella è infelice, intrappolata in un matrimonio senza amore, all’interno del quale lei si strugge per i figli, che hanno lasciato a casa. Mentre si sta preparando all’ennessima cena con party annesso, inizia pensare a se stessa come “una sacerdotessa di un tempio attico che si prepara per il sacrificio.” Questa combinazione di magnificenza e pathos è uno dei centri focali del secondo romanzo di Francesca Kay, “The Translation of the Bones” (227 pp Scribner. $ 24) Stella è solo uno dei tanti personaggi le cui vite si intersecano in una chiesa cattolica nel quartiere londinese di Battersea, dove una donna di nome Mary-Margaret O’Reilly, nel tentativo di pulire una raffigurazione in gesso di Cristo sulla croce, solleva le mani dalla sua corona di spine e pensa di vedere del sangue. Nel tumulto che ne segue, la veridicità del miracolo rimane oscura. Dopo tutto, che cosa si può vedere in una cappella illuminata solo da candele? Ma Mary-Margaret è convinta che questa sia la prova che lei è stata scelta da Dio, e così si propone di mostrare la propria devozione, con risultati devastanti. Kay utilizza la storia di Mary-Margaret per esplorare l’ambiguità della fede – perché noi crediamo quello che crediamo. Con grande delicatezza, crea un ritratto sinuoso di un gruppo di persone unite dalla scoperta di Mary-Margaret. Il sacerdote locale, già sopraffatto dalle richieste giornaliere dei propri parrocchiani, si trova del tutto sconcertato dall’assalto delle persone che vengono per chiedergli del miracolo. Si tratta di ritratti, a volte convincenti e a volte convenzionali: un prete con un rapporto conflittuale con la propria fede, una madre ossessionata dai ricordi della propria giovinezza desolante, una casalinga annoiata che porta i fiori in chiesa. E Stella, che è per molti versi il centro emotivo del romanzo, e la cui esistenza diventa lentamente più esasperante, soprattutto dopo che certi eventi gettano una luce poco lusinghiera sulle sue elucubrazioni.
(Andrea Thompson, The New York Times, 31 gennaio 2012)