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A guardare il Nord. Cinquant’anni d’Italia. Intervista a Massimiliano Santarossa

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Caro lettore,

nel 2012 Massimiliano Santarossa pubblicava sul blog “Scuola Twain” una lettera rivolta ai ragazzi e alle ragazze in cui raccontando di sé bambino e studente “difficile” invitava alla lettura mantenendo le distanze dalla posa moralistica. Voglio partire dalla chiusa di quelle pagine virtuali per prendere il mio avvio, ogni fine del resto ha in sé un inizio: «E mi raccomando: “Leggi bene. Per vivere bene”».

A guardare il Nord (Edizioni Biblioteca dell’Immagine 2021, 504 pagg., euro 15) è certamente da annoverare tra le buone letture, per di più è un volume che agevola la conoscenza dell’autore per chi finora non l’avesse mai incontrato in pagine e inchiostro. Perché? È un compendio di scritti pubblicati e che rappresentano la storia editoriale di Santarossa, non a caso in copertina troviamo stampato “opera generale”. Troverai, caro lettore, una scelta che spazia quindi in vent’anni di scrittura, dai primi racconti realisti apparsi su riviste e quotidiani a più romanzi parzialmente o ampiamente riscritti, ma sono proposte anche molte parti inedite. Insomma, c’è del nuovo anche per chi, invece, di Santarossa conosce tutto.

Caro lettore, un libro può avere valore anche per una sola frase: «L’Italia è avanguardia della fine». Vuoi conoscerla? A guardare il Nord, in effetti, andiamo accompagnati dall’autore, in un viaggio che parte dagli anni ’80 per arrivare alla contemporaneità. Sebbene sia in parte un’antologia, bisogna considerare questo libro come un unico grande testo, seppur frammentato gli anni si susseguono precisi. Leggendo non avrai affatto la sensazione di trovarti alle prese con testi scritti separatamente, la modulazione dello stile dalle prime pagine alle più recenti è graduale. Nel complesso potrebbe trattarsi di un romanzo post moderno. Le diverse parti sono raccordate da introduzioni inedite che appaiono come dichiarazione d’intenti e servono a stabilire le coordinate esatte del viaggio.

Caro lettore, starai in fabbrica, nei bar, nelle notti dannate, starai coi disperati, i sottomessi, tra e con gli ultimi. Scriveva Céline: «Quasi mai gli umili chiedono il perché di ciò che sopportano. Si odiano gli uni con gli altri, e tanto basta», credo sia questo uno dei motivi per cui c’è bisogno di scrittori che parlino anche per chi di voce ne ha solo per le bestemmie che incoraggiano a tirare avanti.

«La mia generazione

è nata nel mondo contadino,

è cresciuta nel mondo operaio,

oggi vive nel mondo tecnologico.

Uno su dieci ce l’ha fatta,

io racconto gli altri nove.»

A guardare il Nord è racconto del mutamento dell’Italia attraverso grandi eventi storici, ricorderai il crollo delle Torri Gemelle, la Grande Crisi e la Pandemia che è attuale e ha accelerato l’iperreale. Santarossa ha «quindi provato a mettere assieme un libro per leggere l’Italia degli ultimi quattro decenni, e con uno sguardo al futuro, nel tentativo di comprendere come è cambiata lei, come siamo cambiati noi». Passerai da un Paese soffocato dalla società dei consumi a un’Italia schiava della realtà filtrata attraverso l’immagine dei mass media e poi dai social, una società dell’immagine. Ma le periferie in cui viaggerai non saranno solo fisiche, non c’è solo la periferia che l’ha visto crescere, quella pordenonese, la Manchester d’Italia. Sarai condotto, anche, nella «periferia dell’anima».

Ma quindi caro lettore perché è necessario leggere?

E come all’inizio di questa lettera la risposta la affido a Massimiliano Santarossa: «Si dice, a ragione, che i libri sono utili a far sentire meno soli i lettori, ma oserei dire anche meno differenti».

Alessia Bronico

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A distanza di due anni da Pane e Ferro torna nelle librerie con A guardare il Nord che è una sorta di antologia in cui ha condensato vent’anni di scrittura. Qual è stata l’esigenza che l’ha portata a ripescare dagli scritti del passato?

Non credo di aver mai scritto per “esigenza”, o almeno lo spero. Sinceramente non comprerei volentieri un libro di un autore spinto, o guidato, da qualche sua personale e determinata esigenza. Preferisco chi narra l’esterno da sé, non il proprio ombelico. Tento quindi di affidarmi a un approccio alla scrittura aperto verso l’esterno, verso la società, i movimenti altrui, che siano nella storia o nell’attualità. Nel merito, ho sempre pensato ci fosse una parte di società meno raccontata, soprattutto qui dove sono nato e vivo, tra Friuli e Veneto. Vent’anni fa – in verità i primi articoli che pubblicai nei quotidiani locali risalgono a trent’anni fa – c’era un vuoto nel racconto letterario di questa periferia, del suo lavoro operaio, delle diseguaglianze, delle povertà pur in una zona potentemente industriale del paese. La povertà veniva considerata una vergogna da non svelare, qui da noi. Allora pensai potesse essere interessante, e forse in qualche misura utile, intervenire lì, come scrittore. A guardare il Nord riprende il filo di questo lungo viaggio letterario, dagli anni Ottanta a un futuro a noi prossimo, con uno sguardo fisso sulle fratture sociali del mondo che conosco meglio, appunto il Nord.

Ci sono diverse parti inedite e di raccordo che rendono A guardare il Nord un unico romanzo, come se lei sin dal principio non avesse fatto che scrivere una sola grande opera. Per rendere in maniera ottimale la struttura ha anche uniformato lo stile.

Non era voluto. Scrivendo i primi articoli fino ai racconti e poi i romanzi, non ho mai pensato a una loro precisa uniformità, a un percorso temporale, o addirittura a una trama. Scrivevo provando a essere una specie di “inviato speciale”, seppur sotto casa, o dentro l’osteria, in fabbrica, o al fondo delle serate senza alba, fin nei meandri delle città, insomma andavo a osservare, scrivevo per raccontare. E questo era tutto, in quegli anni. Solo ultimamente, verso la fine del 2018, dopo la consegna di Pane e Ferro, ho ripreso in mano quella massa di materiale, di carte, di documenti, di scritti a volte solo abbozzati, altre divenuti romanzi. E mi sono reso conto che senza volerlo era particolarmente lineare, un andare, decennio dopo decennio, nei nervi della società del Nord dell’Italia, vivendone in presa diretta i cambiamenti, nella voce e nelle vicende dei protagonisti messi in scena, e poi i reportage e i brevi saggi stavano lì a dare fondamenta concrete ai volti, suoni, nomi, strade, avvenimenti e geografie, etc, tornavano di pagina in pagina. Inconsapevolmente avevo creato una trama lunga due, forse anche tre decenni, legata dalle storie di popolo. Non ho fatto altro in questi due anni che rimetterci mano, allegando vari inediti, saggi brevi, racconti e romanzi in parte riscritti e amalgamati. Ne è uscita un’opera certo vasta, ma mi sembra la misura minima per una storia lunga cinquant’anni, qui al Nord.

«Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come». Così risponde Pasolini in un’intervista del 9 gennaio 1975 su “Stampa Sera”. Parole attualissime. Se la sente di azzardare un’ipotesi su quali sentieri sono rimasti e su chi potrebbe percorrerli?

In fondo, nei libri, non ho fatto altro che “annunciare” ciò che mi auguravo non accadesse. Per esempio, Storie dal fondo narra la crisi economica dieci anni prima che si avverasse. Oppure se penso a Metropoli narra la fine dell’Europa a partire da un morbo e da un crollo economico esplosi al termine del 2019, scritto dieci anni prima. Con questo, bisogna anche dire che nessun scrittore è “profeta”, nemmeno Pasolini. La storia del profeta è una fantasia romantica e nulla più. Tuttavia, uno scrittore realista, quando è davvero impegnato, studia, osserva, annota, analizza e mette assieme dati economici e situazioni sociali. Da lì, occorre davvero poco per avanzare delle previsioni. Tanto Pasolini ieri, quanto Houellebecq oggi, ma i nomi possono essere molti altri, parlano di fine dell’Occidente. Semplicemente, ripeto, quando uno scrittore è impegnato si adopera per raccontare con qualche grado di anticipo. Non stupiscano gli scrittori, ci devono stupire invece i politici che non vedono oltre il quotidiano. O piuttosto fingono di non vedere?

La quinta parte di A guardare il Nord tratta il “futuro”, appunto “azzarda” come dice lei, ed è un futuro che prende avvio nel 2019 ed è ambientato nel 2035… scritto, come accennavo, nel 2009. Naturalmente il futuro lo percorrono sempre i figli. Al momento li abbiamo, con l’enorme debito contratto in quest’anno, messi davanti a un bivio, i nostri figli. Da una parte l’agonia dell’Occidente che affretta il suo collasso, dall’altra reinventarsi un’economia altra. Credo in appendice al libro di aver provato a dire qualcosa, in merito. Un’appendice che è nata parlando con mio figlio maggiore, del futuro loro, di come lo vedono. Per esempio lui si definisce un “socialista liberale che vorrebbe cambiare le regole del mercato da dentro”. Mi pare un buon proposito, per un adolescente.

Com’è cambiata in questi anni la sua scrittura e il suo sguardo sulla scrittura?

La mia scrittura non lo so precisamente, spero sia cambiata, diciamo invecchiata, il meno possibile. La scrittura, più in generale l’arte, è spesso figlia dei luoghi che abitiamo, delle voci che sentiamo, dei molti dolori che patiamo di regola, delle rare gioie che ci toccano in sorte. Nel raccontare la società che mi circonda, con essa, è cambiata anche la mia scrittura. Nell’introduzione al libro ho pubblicato una frase: “Cambi la scrittura col cambiare della nazione!”. Credo ci sia un percorso in A guardare il Nord che va dall’ironico sfrenato al dramma teatrale, poi viene la maturità e un possibile sguardo saggistico al domani. Il mio sguardo invece sulla letteratura è da sempre uno sguardo attento, critico e ammirato. Attento verso molti testi dei miei colleghi, italiani come stranieri; spesso critico verso i troppi scrittori ombelicali, per tornare al principio della nostra discussione; infine ammirato verso alcuni autori di grande coraggio, tra questi Céline nel Novecento e Houellebecq oggi. Solo per citarne due.

«Mi sistemai davanti al macchinario di ferro verde. Dentro la cassetta di cartone trovai dei guanti gialli, di pelle spessa. Afferrai l’avvitatore elettrico, mi misi in posizione e dopo un fischio il macchinario partì.

Mi girai e arrivò il primo motore.

Afferrai la lamiera e avvitai le otto viti più veloce che potevo.

Arrivò il secondo motore.

Afferrai un’altra lamiera e avvitai altre otto viti più veloce che potevo.

Arrivò il terzo motore.

Afferrai ancora un’altra lamiera e avvitai ancora altre otto viti più veloce

che potevo.

Mi voltai verso l’inizio del rullo.

Motori su motori su motori scivolavano sopra la catena di montaggio.

Una fila di mostri d’acciaio. A perdita d’occhio.

Non c’era modo di fermarli.

Non c’era modo di combatterli.

Non c’era modo di sconfiggerli.

A quattordici anni capii che i super-eroi erano tutti morti.»

Questo passaggio è un leitmotiv che ricorre in tutti i suoi libri. Pare essere un pezzo di realtà sempreverde, una sorta di varco da oltrepassare per poter comprendere gli eventi che ci girano intorno. È così?

Sì, vero, torna sempre. Questo e un altro brano, in verità: l’incubo di cadere dal cielo al cemento, in un atto terminale. Sono due passaggi che nel libro tornano, volutamente, tre volte e in tre versioni differenti, riscritti ogni cinque anni. Ogni tot tempo credo sia opportuno tornare a far i conti con gli incubi sociali più diffusi, che sono, a mio avviso, la schiavitù del lavoro seriale, qualunque esso sia, fabbrica come ufficio, e il perdersi nel corpo della città, divenendo noi stessi città. Le due forme odierne di omologazione e alienazione. Ma in fondo, compio semplicemente un invito alla riflessione in quei brani: ciò che costruiamo rischia di costruire noi.

Lei ha più volte dichiarato che l’Italia non è un Paese. Che intende? E che scenario si aspetta post pandemia?

Sappiamo bene che l’Italia è una nazione incompiuta, non realizzata; troppo giovane e troppo frammentata, nata dalle élite e non certo da un volere popolare ampio; inoltre: troppe culture e troppi campanili di fede e economie; l’Italia è almeno una e tre, Nord, Centro, Sud, ma anche una e venti, o una e settemilanovecentotre. Tuttavia, questi vari “troppo”, che rendono l’Italia una nazione mancata, ne esprimono una certa ricchezza, fatta di lingue minori, dialetti, differenze culturali. Ricordo su tutti Pasolini, quando coltivava l’utopia del passato: “non è meno importante un’antica via di ciottoli, persa nella campagna italiana, della cappella Sistina”. Allora, per quanto posso, come scrittore, non vorrei omologarmi a una lingua dogmatica, obbligata, appunto italica.

Esattamente un anno fa, nel marzo e aprile del 2020, ho scritto un reportage per un quotidiano, dove ho tentato di inquadrare il dramma della pandemia in un contesto sia storico che attuale, guardando al futuro. Anche questo lavoro è confluito in A guardare il Nord, e noto con dispiacere che certi pericoli, sollevati in quei mesi, iniziamo a subirli ora, tra tutti l’eredità economica del vastissimo debito pubblico contratto, che peserà, se va bene, fino al 2050. Da qui, la previsione è semplice e complessa allo stesso tempo, semplice riguardo alle nuove fatiche che ci attendono, nel lavoro, nella quotidianità, nelle famiglie, far i conti con la povertà sarà drammatico e non abbiamo ancora cominciato. La previsione più complessa si sviluppa invece sulla questione ambientale: come tratteremo il pianeta nei prossimi anni? Che ripercussione avrà il debito pubblico sulle politiche economiche e industriali? Quando inizieremo per davvero a rispettare l’ambiente? Forse, l’analisi che ne esce in A guardare il Nord, nelle sue parti più saggistiche, può essere d’interesse e sviluppare un dibattito. Con mio figlio, come le dicevo, è stato così. Nei prossimi mesi lo capirò discutendone nei festival coi lettori.

Lei viene da più parti considerato uno scrittore politico, “l’ultimo scrittore comunista” hanno dichiarato alcuni critici letterari. Ha senso, se sì quale, una scrittura impegnata, anzi una scrittura dichiarata?

Credo abbia più senso oggi di quanto ne avesse dieci o venti anni fa, una scrittura politica, chiamiamola pure realista. Naturalmente non ha nessuna rilevanza la preferenza politica di uno scrittore, che voti o non voti, ha invece una certa importanza, e direi utilità anche, una scrittura impegnata, che fornisca cioè una lente critica, di analisi, nel senso gramsciano del termine. Per quanto mi riguarda non voto da molti anni e più che comunista, pur non rifiutando l’idea di una società organizzata in tal senso, posso definirmi anarchico. Non ho partiti, non ho nemmeno appartenenze. Nessuno, oggi, in quello che viene definito “arco parlamentare” mi rappresenta. Non credo all’Europa come Casa dei popoli, posso anche comprendere una moneta unica, o quel che vogliono, decidano pure i banchieri, ma l’Europa come “Casa” non esiste mancando storicamente una tradizione e una cultura unitarie, e una lingua; ancor meno credo alla Nato come ente superiore di difesa, ma nemmeno allo sciocco nazionalismo italiano mi affiderei; come sostenevo prima non esistendo un’Italia culturale non può esserci una cultura nazionale. E non sarò certo io a rifiutare tali evidenze. Mi resta pertanto da credere nelle culture locali, nelle differenze e diversità, nei popoli e nelle loro tradizioni, affidarmi maggiormente alla libertà dei dialetti e meno alle lingue imposte. Sono mezzo friulano e mezzo veneto, come potrei pensarmi italiano o addirittura europeo. Forse tra cinquecento anni, perché occorrono almeno cinque o sei secoli per fare una vera cultura di popolo, qualcuno potrà seriamente definirsi “Europeo”.

Cambiamo un attimo argomento, ampliando la visione sulla sua produzione. Ha da poco esordito nell’illustrazione, proprio qui su Satisfiction, con la rubrica “Bestiario Italiano.”

Il sottotitolo di Bestiario Italiano forse è più evocativo: Immaginario delle paure. Sono figlio di una strana città, Pordenone. Un posto in bilico tra due regioni dove si parla una lingua indefinita, né friulana né veneta, un posto che è stato capitale della musica punk alla fine degli anni Settanta e contemporaneamente capitale dello sviluppo industriale. Non poteva che formare, tutto questo, in me ragazzino un immaginario vasto, spesso vago e notturno. Da qualche tempo ho preso a mescolare immagini che sono semplici graffi d’inchiostro nero alle parole dei miei romanzi. Provo a disegnare un posto forse meno contaminato, un rimando o un resto d’adolescenza. Parole nostre, dal becco e dalle ali, dalla pelle e dal corpo di corvi, cerbiatti, serpenti, topi e vari altri noi. Gli ultimi a chiedersi Cosa mi fa paura?

Scrive: «È il sorriso più puro che abbia mai visto, il sorriso degli sconfitti, il sorriso degli ultimi». Chi sono, oggi, gli ultimi?

Troppo facile sarebbe dire i migranti abbandonati nella neve, o affogati nei mari, le nuove schiavitù nei campi e nelle industrie, e così le donne e uomini in fila alla Mensa dei Poveri. Scandali che sono sotto gli occhi di tutti.

Ciò che invece non si dice, perché ancora non lo si vuol dire, è che gli “Ultimi” al tempo attuale siamo noi. Noi tutti. Anche i benestanti e addirittura i ricchi, coloro che si ritengono al riparo. Siamo, dal primo all’ultimo, gli “Ultimi” ad aver vissuto l’epoca chiamata Occidente.

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