Prezioso questo volumetto, il secondo di riflessioni sull’arte della narrativa edito da Minimux Fax, che raccoglie dodici contributi di altrettanti autori americani, tra i più importanti delle ultime generazioni. Da James Salter, che apre il volume, a Denis Johnson, che lo chiude. Curato da Will Blythe, per anni editor per Esquire e ora collaboratore di molte riviste tra cui Harper’s e Mirabella, e tradotto da Sara Bilotti e Luca Briasco, il libro ci introduce nell’eterno mistero della creazione letteraria. Il titolo originale infatti recita: Why I Write. Ecco: perché scrivo. Non c’è un punto di domanda, anche se probabilmente è sottinteso, perché al di là di quel mistero che porta un uomo o una donna a sedersi davanti al foglio bianco o al pc, i dodici autori danno una risposta, personale e variamente declinata, che apre squarci di consapevolezza, ma anche ulteriori interrogativi, utili come strumento e punto di partenza per ragionarci sopra o anche solo per godere “ingenuamente” della lettura, come spiando dal buco della serratura per penetrare così, furtivamente, nell’universo degli scrittori che siamo abituati ad ascoltare in veste di narratori (ma anche di saggisti o sceneggiatori).
La raccolta inizia dalla parole “in punta di penna” di James Salter, che apre così: “«Scrivere! Che cosa meravigliosa!» Vecchio e dimenticato da tutti, in una casa fatiscente nelle squallide periferie di Parigi, Léautaud scrisse queste righe. Era scapolo, senza figli, solo. L’ambiente del teatro, per il quale aveva lavorato come critico per anni, gli era ora estraneo, ma dalle rovine della sua vita fece emergere queste parole. Scrivere! […] Per me questo piacere deriva dallo scrivere una riga dopo l’altra, in punta di penna [ecco il titolo italiano! Ndr], come mi piace farlo, e la pagina stessa, le pagine su cui le righe vengono scritte, possono essere considerate la cosa più preziosa che possiederò mai”.
Si passa poi a Amy Hempel, straordinaria e celebratissima scrittrice di narrativa breve (Ragioni per vivere è stato appena ripubblicato in Italia): “Potrei elencare un numero illimitato di altisonanti ragioni per cui scrivere, proprio come si può spiegare il comportamento di certi cani con la sottomissione a un soggetto alfa, o persino con una scelta morale. Ma forse è solo perché sono cani, ed è questo che fanno i cani”.
Se Denis Johnson, di cui si è da poco pubblicato Jesus’ Son, dice di scrivere “per essere un personaggio al centro della scena, inerte e colpevole” (ma è tutto de seguire il suo discorso, le righe che scrive lasciano il segno, non solo sulla pagina…), Elizabeth Gilbert racconta di Hank, un cowboy alcolizzato e aggressivo che infarcisce il suo discorso di parolacce, cowboy a cui lei avrebbe voluto assomigliare e che invece le fa i complimenti per la sua scrittura (“In fondo, siamo ciò che siamo. E qualche volta, quando cerchiamo una vocazione, avere la conferma che non potremo diventare bravi in nient’altro ci aiuta”), Pat Conroy, paladino dell’arte del raccontare storie e convinto che “la buona scrittura è la forma più complessa di pensiero”, termina dicendo: “Voglio scrivere da sempre il libro per cui sono nato. Un romanzo è una delle mie impronte, la mia carta d’identità, e scrivere romanzi è uno dei pochi modi che ho trovato per avvicinarmi all’altare di Dio e della creazione stessa”, Mark Jacobson, che è anche giornalista e sceneggiatore (American Gangster) scrive per denaro: “Gli scrittori traboccano letteralmente di potenziali Verità. Eppure, non esiste risposta più perfetta alla domanda sul perché si scrive, e non esiste ragione più impellente per scrivere di questa: per i soldi”, e si rifà all’esempio di Philip K. Dick [Certo, dovremmo impararlo e trovarne il modo anche qui in Italia…], e poi ci sono Robert Stone, Rick Bass, Rick Moody e Margaret F.M. Davis, Darius James, Barry Hannah, e Jim Harrison.
Insomma, un libro da tenere sul comodino e sfogliare lentamente alla ricerca del punto di vista in più, della suggestione e, ancora una volta, del potere illuminante della parola “in punta di penna”.