Eppure, a posteriori, quello del Terzo Reich è il momento migliore per nascere mostro: con tutto quel “bendidio” sullo sfondo, c’è persino il rischio di passare inosservati. Certo, bisogna averne di ironia, per vederla così. Ma se c’è un Mazziere, lassù, e se frequenta il genere macabro, è probabile che la pensi proprio in questi termini.
E Ade Zeno? È di questo stesso avviso? Il suo romanzo, pubblicato a febbraio ‘24 per Bollati Boringhieri, si intitola “I Santi Mostri” e racconta la storia di una compagnia circense che prende le mosse nel 1924 su iniziativa di Gebke Bauer e Jörg Brandt – rispettivamente seduttore e sedotto, il primo con dodici dita, il secondo praticamente una scimmia. Nasce in una Germania che vive anni poveri e dissoluti, isterici e allegri, quasi presentendo l’ombra nazista che presto l’avrebbe attanagliata. I Santi Mostri prendono realmente vita nei pressi di Amburgo, a esser precisi, grazie a una compravendita che non va in porto, stordita dall’oppio e dal cuore di un sensale olandese che di fatto regala altri tre “pezzi” al baraccone: la donna dal doppio volto, l’uomo piovra e l’uomo cammello. Cosa manca? Un baraccone, appunto. Gebke – l’organatore, l’ideologo, il regista – lo rimedia grazie all’aiuto del fratello minore di Brandt, tale Eckhart, un giovane rampante che sta sposando le idee di un tale col naso a pera, come lo definisce Zeno, il quale proprio in quei giorni sta ultimando la dettatura del suo best-seller politico.
Insomma, il destino. O qualcosa che vi rassomiglia, se è vero che da lì il baraccone comincia a girare tutta la Germania – viaggeranno a bordo di un B-type, uno strampalato proto-autobus a due piani scampato alla Grande Guerra che diverrà anche la loro casa con tanto di nome gentile: Geraldine. È l’avventura, quella degli artisti deformi che pian piano si ritagliano uno spazio di successo, danno vita a un vero e proprio show e, soprattutto, accolgono altri mostri: un “Gooble, Gobble” – parafrasando la celeberrima scena dell’accettazione nel cult movie “Freaks” del 1932 – che apre alla funambola cieca, a nani e giganti, fino all’ingresso di un malinconico ragazzo che tutti chiamano Polifemo – ed è facile capire il perché.
Ma è qui che entrano in scena quegli altri mostri perché la Storia – o il Mazziere – è in agguato. Lo chiameranno in diversi modi: omicidio sistematico, Programma Eutanasia o, più cripticamente, Aktion T4 (dal civico in cui ha sede il quartier generale, Tiergartenstrasse 4): l’eliminazione protocollare di tutte le vite “indegne d’essere vissute”. Sembra un film di fantascienza, è storia certificata: Hitler affida al suo medico personale, Karl Brandt, il compito eugenetico di perfezionare la razza ariana cancellando gli sgorbi della natura – alla fine della Seconda Guerra Mondiale, stando ai meticolosi registri tedeschi, la quota di esseri umani ritenuti indegni della nuova Germania si aggirerà intorno ai 250mila nel solo suolo tedesco (altrove si lavorerà meno di fino, aprendo docce e fucilando all’impronta).
Nel nuovo mondo uncinato, dunque, non c’è posto per i freaks. La guerra, la miseria, la distruzione, poi, rendono ancora più difficili le cose ai Santi Mostri, ormai privi di quella protezione popolare che il successo garantiva. E dunque, che ne sarà di loro? Tocca chiedere ad Andris, alias Polifemo. La sua storia, si può dire, comincia quando sta terminando quella degli altri ed è un assolo: una scelta, quella di Ade Zeno, che quasi spiazza il lettore, il quale apprende del resto della cricca solo per via indiretta. Quello che gli succede è imprevedibile ma non è poi tanto lontano da ciò che faceva nella compagnia girovaga: esibirsi. La differenza, tuttavia, c’è, e ha a che fare con la parola. Fino a quando la Geraldine calca le strade ormai sfrondate della Germania, Andris è l’attrazione principale di un duo che compone con l’uomo scimmia Jörg nel quale declamano versi (il realtà lui li traduce, l’altro li declama): estratti recitati da “Il paradiso dissolto”, opera ignota dell’ignoto poeta italiano Lazzaro Ghirlandai, saltato fuori dal cilindro di Gebke. Con quel numero, Polifemo ipnotizzava il pubblico, lo conduceva in un altrove che forse, a ben guardare, rappresenta il senso più profondo di questo romanzo. Nell’epoca dei grandi mostri, l’uomo scimmia e il ragazzo con un solo occhio diventavano – restavano, tornavano – umani. E questo, grazie alla più alta forma di umanità che sia nelle disponibilità degli uomini: la poesia.
Alessandro Galano