C’era la Regina di Cuori in quel mazzo al ristorante, accanto al Re di Denari che aveva dalla sua l’onore del Parlamento e la fama della tv. Altre carte stavano in fila davanti a me: il Re di Picche, forse il più anziano, vestito di nero con la forfora da intellettuale sulle spalle, la Donna di Fiori che non se la fila più nessuno dai tempi di Craxi e poi c’era il Fante di Denari, attore di scarse capacità ma anche produttore cinematografico, con il fare di chi ha i soli mezzi bastanti per rientrare a casa in tram.
Tutti attendevano con pazienza e tolleranza che il maître gli riservasse la giusta attenzione e il miglior tavolo.
Poi c’ero io, sconosciuto anche a me stesso e vestito come un tarocco di paese: una di quelle carte spaiate che non entrano mai nel mazzo. Tuttavia, a causa di un miscuglio confuso, ero finito nella mano di bridge: a coesistere, per una notte, nel lusso di chi si concede la povertà solo nei giochi di ruolo e che ti guarda con la cinica consapevolezza che stai giocando a briscola, per il tuo gesticolare pieno di segni, forse.
Non ero lì per caso, sia chiaro, ero stato invitato per le mie qualità, per la mia arte e per aggiungere un pretesto agli argomenti della serata:
«Lo sai, è un Naso!»
«Un Naso?»
«Oh mio Dio! Un Naso?»
«Ed è sinestesico?»
«Mia cara, si dice sinestetico…»
«Chi sarebbe anestetico?»
Quando mi sento a disagio reagisco in due modi differenti: resto zitto o inizio a provocare.
Feci silenzio quella sera, limitandomi ad annuire e a condividere sgomento quando si parlasse del virus o compassione quando si parlasse della figlia della Regina di Fiori, bloccata a Tel Aviv dalla febbre e dalla quarantena.
Uscendo fuori con la scusa del fumo, mi ritrovai con due camerieri che riconobbero al volo le mie parole, i miei gesti e i proletari segni. Ci raccontammo del nulla, vecchi giocatori di briscola, condividendo un po’ di freddo e qualche sguardo significante.
Poi ci salutammo nostalgicamente, come succedeva da bambini alle Comunioni, quando si scappava dal tavolo degli adulti, intristiti a mangiare, per andare fuori a giocare: cugini e nuovi amici che non conoscevi e mai più avresti visto.
Quando andai via senza salutare, mi sentii un po’ infantile e ineducato, tuttavia, ero più rammaricato per la loro condizione intellettuale che per la mia posizione sociale.
Camminando, recitavo a bassa voce il mantra: «Non hai niente, non hai niente, non hai niente».
L’ultimo passo cadde su “non”: aprendo la porta di casa, un Principe di Pelo miagolava pretendendo cibo e pulizia della lettiera.
«Niente perdono!» disse il gatto.
Finale Due
L’ultimo passo cadde sul “non”, a un paio di metri dalle strisce pedonali e a tre soltanto dal Suv in corsa che non avevo visto e tantomeno sentito arrivare.
«Niente di rotto, lì sull’asfalto?» chiese il Signore.
Finale Tre
L’ultimo passo cadde sul “non” mentre annuivo a una prostituta che conosceva i segni ma anche i giochi dei grandi.
«Niente male!»
«Era una comunione?»
«No, mi devi pagare!»
Angelo Orazio Pregoni