A inizio dicembre, scopro dai media albanesi che uno dei maggiori poeti in Albania, Agron Tufa, ha chiesto asilo politico in Svizzera, assieme alla moglie e i cinque figli. Lascia così il posto di docente all’Università di Tirana, le lezioni, la ricerca, gli amici, parenti, la sua terra, per partire in via definitiva. La scelta di andarsene ha come ragione l’altro ruolo che Tufa ricopre: direttore dell’Istituto per i Crimini e le Conseguenze del Comunismo, un ente che indaga con testimonianze e documenti, la ferocia del sistema dittatoriale albanese.
In questi anni, come intellettuale, uomo pubblico, Tufa è stato un volto televisivo famoso, un polemista corrosivo, nel parlare di libri e di politica, sempre in prima linea, esponendosi a critiche e scontri durissimi.
Negli ultimi mesi, lo scontro con ex dirigenti e giudici del sistema dittatoriale, tuttora protagonisti della scena politica in Parlamento e nei vertici delle Istituzioni, si è inasprito ancora di più. Ed è iniziata l’escalation di minacce su Facebook, via mail, per telefono, fino ad arrivare a insulti e intimidazioni per strada. Tufa è un guerriero, aspro coi nemici ma onesto.
Il regime comunista gli ha distrutto la giovinezza. La sua battaglia da poeta e romanziere è quella di agire sulla lingua, alzare sempre più il livello della letteratura albanese; la sua battaglia da uomo e cittadino invece è spesa con altrettanta energia e senza arretrare: smascherare e sviscerare i crimini di un sistema disumano, stando sempre dalla parte delle vittime, dei feriti, dando voce a chi voce l’ha avuta solo per piangere in silenzio il proprio destino storto.
La rabbia che ha attraversato le sue notti giovanili – essendo figlio e fratello di due prigionieri politici gli era proibito studiare e coltivare la sua passione per la letteratura- trova riscatto nel dare forma alle voci delle vittime, imprimerne i ricordi sui libri, confrontarne la veridicità con i documenti ufficiali, pubblicarli, in nome della memoria.
Conoscendo l’energia inesauribile che lo spinge a non arretrare mai, posso affermare con sicurezza che aveva paura non per sé, ma per l’incolumità dei suoi figli, della moglie, Elvana Zaimi, docente universitaria anche lei, intellettuale e traduttrice dall’inglese e dall’italiano.
Io non ho figli. Non posso comprendere appieno ma immagino che per un padre l’incolumità della sua famiglia venga prima di qualsiasi guerra, anche se ci ha dedicato la vita, con coraggio e dedizione.
E proprio il coraggio è una parola che si confà alla sua statura, a ricordarci più gli intellettuali di inizio Novecento, i grandi poeti russi, da Mandelstam a Brodskij, la posizione di Lorca, più dei poeti occidentali contemporanei. Come il suo amato Brodskij, di cui è uno dei maggiori traduttori in albanese, anche Tufa nel suo percorso ha dovuto mollare tutto, si è ustionato con il fuoco dell’esilio.
Ad attenderlo in Svizzera non potrà esserci un Auden ma sfilze di pratiche burocratiche e contemporaneamente giornali e tv albanesi che ne hanno fatto un caso; i suoi avversari politici, ora nel ruolo di spietati nemici, hanno ripreso a minacciarlo nuovamente, con uno stile squallido, inaccettabile.
Ciò che gli auguro non è trovare pace. Un poeta come lui non la troverà mai. Ciò che gli auguro, come suo lettore, estimatore, è di poter condurre la sua guerra con le mani slegate, senza dover usare un braccio per proteggere la famiglia, battendo le dita sulla tastiera come le nocche di un pugile, con l’etica e la fermezza che l’ha sempre contraddistinto. Cosa che, a quanto pare, non poteva più continuare a fare nel suo paese.
L’Albania perde uno dei suoi figli irregolari che ne esalta la lingua e la consacra in opera d’arte. Lo lascia andare definitivamente. E un paese che fa a meno dei propri poeti è un paese che si morde la lingua fino a paralizzarla.
Julian Zhara