La servitù vista all’antica: “«Una volta ho detto alla signora Pasinotti che non dovevo spendere nulla per via della vacca e che il mio vestito era tutto sciupato. Lei ne scartava tanti, la portiera glieli rivendeva… Ma mi ha risposto che non voleva che vedessero addosso a una serva quello che avevano visto addosso a lei»”.
Un padre idealista e distaccato: “Non ricordavo come egli fosse stato al tempo della mia infanzia; non amava i bambini, diceva sempre: «Bisogna aspettare che crescano per sapere chi sono e se è possibile comunicare con loro».”
Un’intuizione illuminante: “Bisognava avere l’umiltà di aspettare il futuro, non la pretesa di andargli incontro.”
Torna in libreria Prima e dopo di Alba de Céspedes, scrittrice e poetessa italiana figlia dell’ambasciatore cubano a Roma (Cliquot 2023, pp. 128, € 16,00). Pubblicato per la prima volta nel 1955 e mai più ristampato dagli anni Settanta, Prima e dopo racconta la vita di una donna intraprendente ed emancipata nell’Italia del Boom, un’Italia in cambiamento dove esisteva ancora la servitù e tra servi e signori c’era un abisso.
Irene è una giornalista la cui quotidianità viene sconvolta proprio quando la sua serva l’abbandona, per tornare dalla padrona precedente molto più severa e classista. La serva è interrogata sui motivi della scelta: “«Dunque non stavi volentieri con me?» le chiesi. Erminia scrollò il capo, dicendo: «Le volevo troppo bene. Non ho mai fatto un soldo di cresta sulla spesa perché pensavo: poveraccia, se li guadagna come me, non c’è coscienza. Per stare a servizio volentieri bisogna andare da quelli che i soldi li prendono alla banca come il commendator Pasinotti».”
Il dialogo con il padre è un testamento spirituale: “«Non sempre abbiamo il coraggio di difendere le nostre idee a qualsiasi costo. C’è un momento in cui costano danaro; in cui, scegliendole, si sceglie per la povertà. Bisogna esser forti in quel momento: io sono stato debole. Non so se tu dovrai mai affrontare una simile scelta; ma, se io non ci fossi più, vorrei che ricordassi questo nostro colloquio. Per ricordare qualcosa bisogna dargli un riferimento materiale»”.
Si sente la forza di un mondo che sta fuggendo ma non ha ancora perso i suoi principi: “Che cos’era, dunque, la dignità? Il rifiuto di ogni gioia facile, di ogni felicità istintiva? Avevamo rifiutato tutto quanto non fosse lucidamente, consapevolmente accettabile”.
L’inquietudine dei momenti di transizione: “Perciò sentivamo sempre attorno un presagio di fine e, insieme, d’inizio; e spesso ci sembrava di vivere ancora come prima, benché ormai fosse dopo.”
Emerge il senso intimo della libertà: “esser liberi significava appunto accettare l’inquietudine, il dubbio…”
Prima e dopo coglie lo Spirito del tempo che la protagonista, come Pasolini, osserva “dall’orlo estremo di qualche età sepolta”.
Un libro importante che parla della vita in un mondo che muta, delle tentazioni, delle scelte, della dignità e della libertà intese come sentimenti e non come slogan.
E mentre sfogliavo le pagine ho pensato a una grande giornalista di quel tempo omonima della protagonista che sento il dovere di ricordare: l’indimenticabile Irene Brin.
Carlo Tortarolo
#
Quando Erminia entrò nel mio studio, col vassoio del desinare, subito intuii che doveva dirmi qualcosa di spiacevole: aveva lo stesso atteggiamento compunto che assumeva nel presentarmi la bolletta dell’energia elettrica.
Ma, poiché non parlava, incominciai a temere che uno dei suoi familiari fosse malato ed ella dovesse tornare al paese. Non osavo interrogarla; le dissi, come di solito: «Siediti, così chiacchieriamo». Erminia, i primi tempi, non osava sedersi; poi, comprendendo che mi faceva piacere scambiare qualche parola mentre mangiavo, era giunta a un compromesso: sedeva sul bracciolo di una poltrona. Io le dicevo: «Indovina un po’ chi ho incontrato?» oppure: «Sai che cosa è successo alla signora Adriana?». Così, a poco a poco, le avevo raccontato tutto di me, del mio lavoro, delle mie amicizie, e ormai sapeva perfino quanto danaro avevo in tasca, quanto contavo, o speravo, d’incassarne. Mentre parlavo ella mi avvolgeva in uno sguardo tenero; capivo che mi voleva bene, anzi, che mi amava, e mi sentivo protetta, benché lei avesse ventitré anni e io trentacinque. Ma quel giorno, vedendola rimanere in piedi, mi convinsi che i miei timori erano fondati. Infatti, poco dopo mormorò: «Non ho coraggio di dirle una cosa». Volevo ancora sperare che si trattasse di un oggetto rotto, di una blusa avvampata nello stiro; eppure fui io stessa a chiederle in tono scherzoso: «Che c’è? Vuoi licenziarti?». Lei annuì, guardandomi con occhi disperati. Poi disse che tornava dalla signora Pasinotti.
Mi parve che tutto, attorno, stesse per crollare. Non potevo più immaginare la mia vita senza Erminia. Quantunque ella fosse con me solo da alcuni mesi mi figuravo che vi sarebbe rimasta per sempre e intendevo, alla mia morte, lasciarle il poco che possedevo. Mi dispiaceva soprattutto che tornasse dalla Pasinotti: in fondo avevo sempre saputo che, se un giorno Erminia avesse deciso di abbandonarmi, sarebbe stato per lei; ma mi sentivo forte del suo amore e mi lusingavo di sconfiggere facilmente la rivale. Le offrii subito un aumento di stipendio e intanto pensavo che – pur volendole tanto bene e nonostante il mio preteso senso di giustizia sociale – forse avevo approfittato del suo affetto per pagarla poco. Lei rispose che dalla Pasinotti non avrebbe guadagnato di più e quelle parole, invece di rassicurarmi, inacerbirono la mia ferita: dunque, mi dicevo, non è per interesse, ma per una scelta tra me e l’altra.
Mi sentivo come un’amante tradita e fui lì lì per piangere; avrei voluto chiederle: “Erminia, perché mi fai questo?”. Tuttavia, riuscii a controllarmi; anzi le dissi che, non avendo intenzione di sostituirla, potevo fare a meno degli otto giorni e la lasciavo libera di andarsene quando voleva, anche subito. Allora mi si avvicinò supplicando: «Mi meni, signorina, mi dia due schiaffi: sono una serva, gliel’ho detto, una serva ingrata, ignorante». Sapevo che la Pasinotti, quando ella commetteva una mancanza, la chiamava sempre in quel modo offensivo e spesso la picchiava, le dava tanti pugni sulle spalle; me lo aveva raccontato lei stessa e, di fronte al mio scandalizzato stupore, aveva riso dicendo: «Che vuole che mi facesse? Ho preso tante botte a casa mia! Mio padre ha le mani dure, quelle della signora Pasinotti sono piccole piccole, non le sentivo nemmeno. Una volta sola mi fece male, senza volerlo, con la pietra dell’anello». In generale il suo candore mi commoveva: ma, quel giorno, la sua indecorosa preghiera mi disgustò; forse perché mi provava che la mia affabilità e tutte le cose che le avevo dette erano state inutili. Le risposi freddamente che non picchiavo nessuno e che lei non era una serva né io una padrona; eravamo due donne che vivevano ciascuna del proprio lavoro, aiutandosi scambievolmente, ma libere di stare insieme o di lasciarsi. Ero convinta di ciò che dicevo; eppure, nel dirlo, mi sembrava di rifare il verso a un pastore evangelico. Non avevo più voglia di mangiare e lei, ritirando il vassoio, arrossì come per rimorso; poi mormorò che avrebbe messo tutto in ordine e avrebbe dato la cera, prima di andarsene.
Tre giorni dopo, quando richiusi la porta alle sue spalle, l’odore della cera mi cagionò lo stesso dolore lacerante che avevo provato anni prima nel sentire sulle mie mani, dopo il commiato ultimo, l’odore della colonia di Maurizio. Allora ero tanto temeraria che, per indugiare nell’amaro piacere del ricordo, avevo subito comperato una bottiglia di quella colonia: grande, da mezzo litro. Ma poi, incapace di resistere, l’avrei senz’altro vuotata nel lavabo se un radicato principio di economia non mi avesse suggerito di riporla nell’armadio; infatti alcune settimane dopo avevo riconosciuto, con rammarico, che ormai potevo usarla. Così pensai che presto mi sarei abituata anche all’odore della cera.
Eppure, ritrovandomi sola, mi sentii invadere dallo sconforto. Convenivo che tutto ciò era sentimentale, assurdo, e decisi di telefonare ad Adriana per proporle di andare a cena insieme. Non ci vedevamo tanto spesso quanto avremmo voluto, sebbene ci telefonassimo quasi ogni giorno; questo accadeva anche con altri amici, tutti, come me, occupatissimi. D’improvviso mi resi conto che c’erano voci, nella mia vita, più che presenze; e che, ormai, sarei rimasta priva di quel calore che sentiamo soltanto vivendo con qualcuno, e che paghiamo con il fastidio della convivenza.