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Alberto Fabio Ambrosio. Per una morale contemporanea

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Se gli studi sulla moda ecosostenibile sono ormai numerosi, la riflessione sull’etica e la moda, o ancora meglio sull’etica nella e della moda, è ancora agli inizi. Ambrosio sottolinea quanto oggi la moda sia un problema. La morale della moda necessita un pensiero etico che possa contribuire alla conversione del sistema stesso. Troppi elementi socioeconomici ed estetici legati alla moda generano ingiustizia. La grande libertà che la moda ha introdotto nel mondo occidentale non è necessariamente legata a un rispetto sociale.

Il libro di Alberto Fabio Ambrosio è un’introduzione a una morale contemporanea. Una riflessione morale del contemporaneo la cui cifra più rappresentativa è proprio la moda.

L’etica è una riflessione filosofica rivolta ai nostri atti, ai nostri atteggiamenti, al nostro agire e ancor di più all’insieme di criteri che guidano l’azione, i principi e le abitudini che regolano i comportamenti di ogni singolo uomo o di una comunità, sia in generale che in un dato momento storico. Un’etica della moda è possibile e assai interessante, soprattutto oggi che il termine moda non si riferisce più all’ambito squisitamente inteso, ma è una questione di linguaggi e soprattutto di simboli.1 Quello della moda è un sistema semi-simbolico, giacché una delle caratteristiche della sua comunicazione è il simbolo. In esso si riscontra l’indizio «della situazione dell’uomo al centro dell’essere nel quale si muove, esiste e vuole».2

Per comprendere le motivazioni della moda di una data epoca, in particolare la nostra, si potrebbe far riferimento alla teoria secondo la quale l’uomo, sin dall’antichità, ha curato il suo abbigliamento come uno dei più importanti elementi simbolici della propria condizione sociale.3 Se le peculiarità dell’abito, che servivano a differenziare l’appartenenza dell’individuo alle diverse classi sociali, sono in parte decadute, rimane il fatto che anche oggi la moda non è solo un fenomeno frivolo epidermico salottiero, ma lo specchio del costume, dell’atteggiamento psicologico della persona, della professione, dell’indirizzo politico, del gusto e non solo.

Come avviene che, in un dato periodo, si sia assistito all’avvento di una determinata moda piuttosto che un’altra? Chi l’ha deciso?4

Nella congiuntura attuale, cioè di un capitalismo neoliberale, la moda diventa la quintessenza di quel sistema. Per questa ragione Ambrosio ritiene che l’approccio anticapitalista viene sempre più applicato anche al mondo della moda e del consumo dell’abbigliamento. Tutti i tentativi della moda etica sono in senso generale la risposta anticapitalista all’imperativo finanziario dell’alta moda. Per cui essere alla moda e acquistare i prodotti di lusso non è cedere al sistema solo e soltanto dal punto di vista economico, quanto e più ancora è cedere al principio fondamentale secondo il quale il capitalismo si identifica con una verità assoluta dalla quale è impossibile prendere le distanze. La moda costituisce un problema morale ancor prima di diventare un problema economico, e a maggior ragione in questo frangente storico in cui l’industrializzazione del settore tessile si è sviluppata in maniera esponenziale e senza un apparato legislativo globale.

La moda, qualsiasi essa sia, pone il problema, per Ambrosio, del bene e del male degli atti umani, dell’azione in società, del rapporto tra individuo e collettività. La prima legge perversa di questo sistema è quella dell’idolatria dell’estetica, ovvero quando la bellezza e la ricerca della bellezza assurgono a idolo. E quando l’estetica, cioè la la ricerca della bellezza dell’apparenza esteriore, diventa un culto idolatrico si configura allora la questione morale.

Nella cultura contemporanea, che dall’Occidente viene esportata in molte regioni del mondo, il narcisismo individualistico delle società si sviluppa grandemente anche attraverso la moda. Tale fenomeno è da ascrivere, per Ambrosio, a un’idolatria dell’estetica, un culto dell’apparenza della propria individualità.

Quanto l’apparire, trasformatosi in ostentazione, è ancora un bene per la persona nelle società occidentali? Queste non si arrestano nella corsa spasmodica alla caccia di novità e di nuovi modi di rappresentare la propria individualità, rafforzando quei sentimenti, quelle emozioni che costituiscono proprio l’apparato della soggettività capitalistica e neoliberale. Il culto idolatrico, spostando tutta l’attenzione sull’estetica, perviene a proiettare le divinità della moda e dell’individuo alla moda nel pantheon sociale.

Nelle società postmoderne e nel neoloberismo capitalista, il culto idolatrico dell’apparire, e forse più ancora quello dell’ostentazione, sono totalmente asserviti al principio economico, dal momento che sganciano la metafisica dell’apparenza, intesa come potenziale positivo, da ogni bene. L’idolatria estetica diviene asservimento al capitale economico che crea la giusta narrativa, attraverso il potere della comunicazione, per rendere indispensabile questa stessa estetica, facendo credere che essa sia diventata un assoluto indispensabile per l’individuo e per le società. Per cui la moda, cioè il mercato delle apparenze e del lusso, produce anche questo contraccolpo, aumentando la competitività delle apparenze, in un immaginario sociale fatto di continui paragoni, lasciando tutti ancora più soli. Ma il vero problema della moda, nell’analisi dell’autore, è il consumismo.

Il settore moda è il secondo più inquinante dopo quello petrolifero. A un anno dalla pandemia, che ha portato alla crisi del mercato internazionale, i consumatori hanno sviluppato nuove abitudini che con tutta probabilità continueranno anche nei prossimi anni.5 Molti consumatori hanno apportato modifiche allo stile di vita per ridurre il proprio impatto ambientale.6 La pandemia sembra quindi rappresentare un motore importante per lo sviluppo della domanda di moda sostenibile, avendo accelerato l’orientamento di molti consumatori verso acquisti più consapevoli e aziende che seguano modelli di business più responsabili e implementino azioni concrete e misurabili di sostenibilità.7 Oggi, i criteri che influenzano i consumatori nelle loro scelte d’acquisto di prodotti di moda sono estetici e materiali ma anche affettivi e valoriali: ciò che indossiamo è in grado di raccontare chi siamo, cosa desideriamo, come viviamo e di quale universo valoriale facciamo parte.8 La pandemia ha portato i consumatori a valutare con più attenzione cosa acquistare, a selezionare cosa li rappresenta, dando maggiore importanza al valore simbolico e comunicativo dei prodotti. Le aziende hanno oggi una nuova opportunità di creare legami valoriali con i consumatori, e questo spiega perché numerose aziende abbiano recentemente iniziato a comunicare in maniera massiccia la propria strategia di sostenibilità.9

Alberto Fabio Ambrosio afferma che la morale della moda è tale perché necessita un pensiero etico che possa contribuire alla trasformazione, alla conversione del sistema stesso. Non può esservi moda senza morale e non perché i centimetri delle gonne non siano pudichi, ma perché troppi elementi socioeconomici ed estetici legati alla moda generano ingiustizia.

Anziché curare l’apparenza, aiutando a costruire il sé più profondo, l’abbigliamento alla moda diventa il mezzo per alleviare solo momentaneamente un senso di abbandono, di profonda solitudine.

In qualche modo il vestito sembra essere una seconda pelle simbolica che manifesta la socialità costitutiva dell’individuo. Ma per fare in modo che egli non giunga ad accentuare eccessivamente il carattere alienante di questa socialità, deve poter mettere in atto il gioco delle maschere. Abbigliarsi è in qualche modo darsi una forma che prevede una trasformazione e non un’adesività rigida.10 Per Ambrosio la moda in sé stessa non esiste se non riesce a produrre un contro-discorso che può essere tanto critico quanto servile. La dialettica è, infatti, un processo che fa esistere i poli opposti di una data questione. Alla moda che si autoproclama la dea delle apparenze si oppone una antimoda che sceglie di andare a cercare tendenze alternative. L’epoca contemporanea ha spostato l’antimoda, da sempre focalizzata sull’aspetto moraleggiante del pudore secondo il quale l’abbigliamento deve coprire la “vergogna”, verso questioni ancora più “indecenti”: quelle delle ingiustizie sociali prodotte dal segmento della moda e dallo sfruttamento ambientale. Dire che la moda deve essere etica significa, per l’autore, cambiare solo il colore del modello già costituito.

Se per moda si intende la trasformazione continua dell’abbigliamento, allora certamente ogni civiltà, ogni popolo consta di una storia dell’abbigliamento, e quindi della moda. Che la moda vada decolonizzata è una prospettiva necessaria tanto a livelli di studi della moda quanto e forse ancor di più dal punto di vista della moda vissuta. Tuttavia, sottolinea Ambrosio, decolonizzare la moda non può significare semplicemente affermare che la dinamica della moda esiste in tutte le culture e in numerosi periodi storici. Questa prospettiva, quanto mai vera dal punto di vista storico, culturale ed estetico, non tiene sufficientemente in considerazione il ruolo che la moda cosiddetta occidentale rivendica. La moda quale fenomeno complesso, che implica un’estetica, un’economia e una produzione, è certamente da ascrivere all’evo moderno europeo. Quest’affermazione, tuttavia, non è sufficiente per dire che questo stesso fenomeno, in quanto tale, non lo si possa trovare altrove. È invece la riflessività sul termine stesso e sul fenomeno che fa esistere la moda in maniera se non unica almeno tipicamente europea dapprima e occidentale poi. Da un punto di vista prettamente filosofico, è l’esistenza di una riflessività sul fenomeno stesso che lo fa esistere in modo preciso. È quella moda concepita e prodotta in Europa che diventa lo stigma dell’Occidente e della moda stessa. Qui è insita tutta la problematica della questione filosofica di una decolonizzazione della moda, che finisce per configurarsi come un sistema. L’Europa si pensa esportatrice di una moda che diventa, prima ancora che merce da immettere sul mercato, elargitrice di un pensiero.

Non si può certo trascurare, tra gli altri, l’impatto che procede, in primis, dal considerare in che modo fin dall’inizio del Novecento – tra nazionalismo e imperialismo – la moda, concepita come uno dei maggiori indici di espansione e di dominio sui popoli, diventi fondante nella lotta per la supremazia mondiale, specificatamente tra Stati Uniti e Francia.11 Allo stesso modo, non si può tralasciare l’impatto che procede dalla rivendicazione che il ruolo degli Stati Uniti esercitano nel controllare la moda francese attraverso le proprie riviste di moda, i propri buyers, nonché la pratica giustificata di copiare i modelli di Parigi, tentando di esercitare una modernità imperialistica della moda, che vede una compiuta realizzazione a partire dal Secondo Dopoguerra. E ciò in un processo in cui viene via via inglobata anche l’Italia.12

Il rapporto che unisce tra loro moda e politica è da sempre alquanto controverso e non passibile di un’interpretazione univoca. I Fashion Studies hanno affrontato solo marginalmente il rapporto tra moda e politica, con contributi legati per lo più ad aspetti specifici.13 L’ambito politologico si è dimostrato meno incline a riconoscere tale rapporto, in virtù del fatto che esso chiama in causa la dimensione simbolica della politica. Elisabetta I è forse la prima sovrana dell’epoca moderna a dedicare una grande attenzione alla rappresentazione simbolica del potere attraverso la figura e il corpo stesso del sovrano. Sul piano della moda, la sovrana porterà fino alle estreme conseguenze il processo di astrazione della figura umana già avviato dalla moda spagnola. Ma fu Luigi XIV a comprendere il valore politico della moda come strumento di affermazione della potenza di una nazione. Gli ideali democratici sorti con le rivoluzioni di fine Settecento sono destinati ad arricchirsi di elementi simbolici con l’avvento della lotta di classe e delle grandi ideologie nelle democrazie di massa del Novecento. È proprio all’interno di queste infatti che l’uso della moda ai fini della rappresentazione simbolica del potere assume aspetti contraddittori. Da una parte infatti, in virtù del comune riferimento alla libertà di espressione, la democrazia sembrerebbe costituire il terreno adatto alla fioritura della moda, dall’altra, il riferimento costante al ruolo che le istituzioni politiche svolgono nel rappresentare la volontà dei cittadini così come espressa attraverso libere elezioni, costringe la moda a fare un passo indietro e ad adattarsi a un dress code istituzionale che non la prevede, se non come elemento di disturbo.14 In realtà il potere ideologico, grazie al suo potenziale di identificazione, finisce per utilizzare la moda nel suo duplice meccanismo di differenziazione/integrazione, promuovendo l’uniformità tra i simili e la differenziazione rispetto al resto del gruppo.15

Attualmente la relazione tra moda e politica chiama anche in causa i processi di personalizzazione, leaderizzazione, individualizzazione della politica contemporanea16 e l’ascesa di quella che è stata definita la “celebrity leadership”17. Nella politica post-ideologica contemporanea il ruolo della moda diviene pertanto necessario per mettere in scena il pluralismo delle posizioni nel momento in cui il conflitto politico si attenua nei contenuti, ma resta indispensabile ai fini dell’esistenza stessa dei partiti.18

La contro-moda, dopo secoli di critica morale, assume negli ultimi decenni del XX secolo, e ancor più nei decenni dell’inizio del XXI secolo, le caratteristiche che si ritrovano nel movimento definito anticapitalista. «Cosa c’entra Karl Lagerfield con Karl Marx?»19 L’analisi marxiana permette ancora oggi, per l’autore, di decostruire un sistema profondamente intessuto di ingiustizie economico-finanziarie che divengono oggi ingiustizie ecologiche e planetarie. Ecco allora che si pone, per Ambrosio, il problema, da un punto di vista morale, di come porsi di fronte al sistema moda o all’antimoda, dal momento che entrambe asserviscono il sistema, direttamente o indirettamente.

La moda potrebbe forse apparire come l’ambito più distante a cui associare il termine decostruzione. E tuttavia ampio è l’uso che ne è stato fatto. Qui l’aggettivo “decostruzionista” non definisce una particolare tendenza o scuola, ma sembra riferirsi a qualsiasi approccio riflessivo e problematizzato alla moda dove, in modo analogo all’architettura, l’operazione critica si svolge direttamente attraverso la creazione di opere che sfidano gli assunti “umanistici” fondamentali.20 È bene comunque sottolineare quanto nessuno degli artisti decostruzionisti abbiano mai voluto veramente parlare della decostruzione come un metodo di cui appropriarsi o una teoria a cui fare riferimento. Sono stati i critici a concettualizzare l’esistenza di una deconstructionist fashion, in un senso perlopiù euristico che realmente descrittivo, per indicare un atteggiamento critico verso il sistema della moda in generale o, più in particolare, verso gli stilemi della moda.21

Se la definizione della parola “moda” è ancora di difficile articolazione e costituisce un terreno non ampiamente condiviso dalla critica, l’assunto fondamentale della moda come processo sociale e culturale, comunicativo e identitario, appare ormai assodato nell’affermazione dell’interdipendenza fra abito corpo cultura. Negli ultimi anni la moda si è trasformata sempre più in una pratica di identità provvisorie, in una manifestazione di comportamenti post-moderni che tendono ad abbattere le frontiere fra gli stili per applicare il mix eclettico e modificano, di conseguenza, il concetto di abbigliamento come strumento comunicativo. Ne deriva anche una crisi del concetto di stili di vita, sempre più eclettici transitori mutevoli, che sembra non essere più adeguato alla frammentazione dell’individuo moderno inserito in società multiculturali e pluricentriche, per cui lo stesso discorso della moda è obbligato a ridefinirsi e a utilizzare nuove modalità di comunicazione. L’elemento identitario è particolarmente presente negli studi concernenti il sistema moda non solo perché l’abbigliamento è una delle forme di espressione dell’io, ma anche perché il discorso prodotto dagli attori economici e culturali del settore si basa essenzialmente su una forte definizione dell’identità di marca sia a livello iconico, sia a livello verbale. Il concetto di identità è quindi intrinseco alla creazione stessa della marca che per essere comunicata a un pubblico sempre più diversificato necessita di tratti specifici in grado di proporre valori, uno stile di vita, un’estetica e, addirittura, un’etica e una visione del mondo.22

Nello stadio estetico l’uomo non si confronta con l’etica, con i principi e i valori morali, ma vive solo nella contingenza e così la sua personalità non si può né costruire né sviluppare: egli si sofferma a vivere all’istante, momento per momento. Ma il momento è sempre effimero e chi ha scelto di non scegliere in realtà non s’impegna in un programma di vita. Chi rinuncia a costruirsi un’identità, una personalità definita, alla fine avverte il vuoto e il senso di fallimento della sua esistenza e cade nella disperazione. Lo stadio estetico è infatti lo stadio della disperazione, che però è la condizione che permette di scegliere la vita etica, di aprirsi all’etica. Nello stadio etico l’uomo, per superare la disperazione dello stadio estetico, accetta di vivere conformemente a ideali morali, assumendosi delle responsabilità. Nel passaggio dallo stadio estetico a quello etico si può diventare una persona diversa, ma ciò è possibile solo se avviene quello che Kierkegaard definisce la “scelta esistenziale”.23

Nella postmodernità acquistano importanza i criteri estetici, l’emozione e il gusto, che erano marginali nell’epoca moderna, razionale e orientata alla produzione.La nuova era mette a disposizione un ampio sventagliamento di esperienze di lavoro e tempo libero. D’altro canto, invece di seguire le pretese di una morale razionale universale, ciascuno si costruisce personali percorsi di vita buona e definisce soggettivamente i modi della sua responsabilità nei confronti dell’altro. Allo stesso tempo gli esseri umani, lungi ormai dal pensarsi in grado di dominare e migliorare la natura, cominciano a prendere coscienza dei danni ambientali in corso. La questione della moda etica è ovviamente un aspetto della più generale questione del consumo responsabile, che si fa strada perché sono almeno in parte cambiati i rapporti di forza tra produttori e consumatori. Se è vero che la cultura postmoderna è eminentemente emozionale, si comincia a parlare di moda etica quando la ricerca estetica inizia a combinarsi con il riconoscimento del rischio e le richieste di sostenibilità. La moda etica segna da una parte il culmine dell’ambivalenza tipica del postmoderno e dall’altra l’uscita dal puro estetismo che sembrava caratterizzarlo. Non si può ignorare, inoltre, che anche la moda responsabile ha i suoi critici, i quali sostengono si tratti non solo di un mercato di nicchia, e perciò irrilevante, ma anche di un mercato impossibile.24

Il vero problema della cultura postmoderna è il suo essere concentrata solo sul presente, incapace di pianificare o almeno prefigurare il futuro. Il nuovo Millennio ha portato con sé un nuovo tipo di immaginazione, che ora riguarda le aspirazioni a un mondo migliore più che all’appagamento estetico. Occorre decolonizzare l’immaginario, ovvero uscire dai vecchi schemi rischiando una parte dei nostri privilegi. L’Immaginazione Etica (IE) è un’abilità complessa che, specie nel caso della moda, ha ancora a che fare con una rappresentazione e perciò con l’emozione estetica, ma riesce anche a sintetizzare ritorno alla tradizione e progettualità, sentimenti di appartenenza e nuove relazioni sociali. Se secondo Appadurai l’immaginazione porta a produrre cambiamenti epocali, la moda etica sembra costruire un ponte finalmente stabile tra produzione e consumo all’interno di nuove “comunità di pratica”. La moda responsabile appartiene alla stessa cultura che promuove lo slow food, ma la estende a un settore che molto più del cibo è colonizzato dall’estetica e lontano dalle urgenze della miseria e della malattia. La responsabilità per la sostenibilità sembra meno ovvia nella moda e perciò diventa determinante per l’allargamento della sfera d’influenza dell’immaginazione etica.25

Irma Loredana Galgano

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Alberto Fabio Ambrosio, Per una morale contemporanea. Critica della moda pura, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024.

1M. E. Capitanio, L’etica della moda, B@abelonline vol. 14/15, RomaTre Press, Roma, 2013.

2P. Riœur, La simbolica del male, Il Mulino, Bologna, 1970.

3G. Dorfles, La (nuova) moda della moda, ed. Costa & Nolan, Milano, 2008.

4M. E. Capitano, op.cit.

5PwC, PwC’s March 2021 Global Consumer Insights Pulse Survey, 2021.

6A. Granskog, L. Lee, K.H. Magnus, C. Sawers, Survey: Consumer sentiment on sustainability in fashion, McKinsey & Company, 2020.

7Accenture, COVID-19: Retail Consumer Habits Shift Long-Term, 2020.

8C. Lunghi, E. Montagni, La moda della responsabilità, Franco Angeli, Milano, 2007.

9F.R. Rinaldi, Moda sostenibile e circolare tra ambiente, etica e cultura del territorio, Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica, Sapienza Università Editrice, Roma, 2021.

10M. E. Capitano, op.cit.

11A.M. Blake, How New York become American 1890-1924, The John Hopkins University Press, Baltimore, 2006; D. Albrecht, Paris New York: Design Fashion culture 1925-1940, Monacelli Press, New York, 2008; R. Arnold, The American look. Sportswear Fashion, Fashion and Image of Woman in 1930 and 1940s New York, I.B. Tauris, London and New York, 2009; D. Calanca, New York is Everybody’s Town: Itinerari della moda tra Europa e Stati Uniti in età contemporanea, in Moda, Metropoli e Modernità, D. Baroncini (a cura di), Mimeis Edizioni, Milano, 2018.

12D. Calanca, Fashion in Italy (1951-1965). Consenso e opinione pubblica tra Europa e Stati Uniti: un’introduzione, Dimensione e Problemi della Ricerca Storica, Sapienza Università Editrice, Roma, 2021.

13B. Bartlett, Fashion and Politics, Yale University Press, New Haven, 2019; M.C. Marchetti, Moda e Politica. La rappresentazione simbolica del potere, Meltemi, Milano, 2020.

14M.C. Marchetti, La rappresentazione simbolica del potere attraverso la moda, Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica, Sapienza Università Editrice, Roma, 2021.

15G. Simmel, La moda, Editori Riuniti, Roma, 1985.

16G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Il Mulino, Bologna, 2012.

17D. Campus, Celebrity leadership. Quando i leader politici fanno le star, Comunicazione Politica, n°2, 2020.

18M.C. Marchetti, op.cit.

19T.E. Hoskins, The anti-capitalist book of fashion, Pluto Press, London, 2014.

20P. Terzi, Atlante disciplinare della decostruzione. Dalla filosofia alla moda, ZoneModa Journal, Vol. 10, n° 1, 2020.

21A. Zborowska, Deconstruction in Contemporary Fashion Design: Analysis and Critique, International Journal of Fashion Studies, Vol. 2, n° 1, 1998.

22M.M. Mattioda, Le costruzioni identitarie del sistema moda. Verso modelli di identità plurale, Synergies Italia, n° 7, 2011.

23Á. Heller, Per un’antropologia della modernità, Rosenberg & Sellier, Torino, 2016.

24L. Bovone, Cultura materiale e nuovi valori: il caso della moda etica, Sociologia della Comunicazione, luglio 2016.

25L. Bovone, op.cit.

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