Finito di leggere i racconti di Paolo Zardi, un brivido di nostalgia per i mondi, quotidiani e tragici, eppure leggeri e ironici, le cui solitudini fanno inciampare nella riflessione amara che la condizione umana è, essendo tale, finita e allo stesso tempo misteriosa, l’umanità pullulante continua a affacciarsi dalla pagina. È osservarla dall’alto dello Spazio, sembra non riguardarci, un po’ come capita alla protagonista del racconto, umano-real-utopistico, “Vite” che non si era ancora abituata allo spettacolo di quel mappamondo in formato gigante. La bellezza di questi racconti è nella capacità di Zardi di creare una barriera difensiva tra il dolore e la piacevolezza. La sofferenza umana è scolpita sulla pagina, ma noi siamo più stupiti dalla capacità di Zardi di calarsi, di volta in volta, in luoghi fisici e mentali differenti, e percepiamo il dolore del ragazzino bullizzato, dolore che diventa consapevolezza, in “Cavallette”: per un attimo intuì qualcosa del mondo, come se i destini degli ultimi finissero sempre per assomigliarsi – come se il dolore fosse una condizione naturale, l’unica verità, e la salvezza arrivasse per strade inaspettate; il racconto “Sotto ogni cuscino c’è un Dio” è un capolavoro straniante di giornaliera inquietudine, in “L’ultimo amore di Aristotele”, dove l’anziano bigotto e fascista, amico di collegio del protagonista, subisce la nemesi – sul momento sorrisi di fronte a quella ridicola, e prevedibilissima, nemesi: in fondo, pensavo, se l’era cercata, e non poteva che finire così – percepiamo tutta l’umanità e l’imprevedibilità di Zardi, nonché la sua capacità di citare e viaggiare dentro le culture classiche e moderne senza orpelli e ostentazioni; il racconto, toccante e scabroso allo stesso tempo, del ragazzino costretto allo stato di vegetale da una meningite fulminante: la meningite gli aveva bruciato il cervello, staccando il corpo dalla centralina elettrica, ma non gli aveva impedito di diventare un bel ragazzo, si intitola “Urano” e mi ricorda, insieme al racconto “Stato Avanzamento Lavori”, le atmosfere di D.F.Wallace, d’altra parte la lezione di Dickens e Čechov, mi sembra siano state ben apprese. Siamo stupiti dal calore con cui Zardi ci protegge dal fuoco della Cosa. Non finirò mai d’insistere sul fatto che la scrittura, quando è desiderante, permette all’autore, com’è successo anche nelle sue forme-romanzo, di costeggiare quel buco nero di godimento e morte che ci riguarda tutti e tutte, ed era così grande questo nulla, cosi totale da essere immenso, infinito, e immensamente piccolo, e infinitamente vuoto; e – ora finalmente lo sapevo – parlava di me…, scrive nel racconto intitolato, appunto, “La cosa”.
La scrittura non declina il solito cliché autobiografico, travestito da auto-finzione, qui la narrazione è pura fantasia, almeno è quello che vediamo, e anche non tematizza l’unico tema, ormai noiosissimo, lei lui e relative incomprensioni. Qui il sole è caravaggesco e plastico: il sole esiste, ma il mo(n)do nel quale risplende lo eleva a cosa dignitosa che ci pare non averlo mai visto un sole del genere: ma poi sbucò il sole e il giardino zen si colorò di luce, in “Stato Avanzamento Lavori” oppure: ora, infatti, ogni singolo gesto appare sotto una nuova luce: la colazione alla mattina con il sole che entra dalla grande finestra, nel commovente “Le sottili pareti del cuore”.
La natura, le strade, le persone, i tipi che popolano il mondo, li riconosciamo, li vediamo tutti i giorni, eppure sulla pagina pare di vederli per la prima volta, epifanie. Sorprese.
I racconti sono brevi, alcuni già pubblicati in riviste, ma restano lì, impressi nel cuore, nella memoria, nel corpo. Ho sempre pensato che per Zardi il corpo, anche e soprattutto quando si dissocia – poi io e il mio corpo abbiamo preso strade diverse: ci siamo in qualche modo separati. Abbiamo continuato a convivere, ma nessuno dei due pareva riconoscere dignità all’altro – come nel racconto intitolato, appunto, “Corpi”, sia fondamentale in tutte le sue declinazioni – e per questo gli riservo l’intervista, che segue a queste impressioni, che di solito dedico alla poesia e che riguarda i cinque sensi, appunto.
Zardi è un poeta nel senso etimologico del termine: crea mondi sublunari, quotidiani, che ci appartengono, ma è come se li scoprissimo per la prima volta davanti alla sua pagina. Un racconto finito ci fa desiderare il successivo. E alla fine di rileggerli tutti. Il desiderio di “Warming Day”: l’amore e il desiderio, la tenerezza e l’ardore, pervadevano ogni cosa, ma il mancato accordo dei sentimenti, le imperfezioni nelle corrispondenze, li erodevano, li logoravano, lasciando una lunga scia di rimpianti e occasioni perdute. Il desiderio. La luce nuova delle ore. I volti ridipinti dei giorni. Il familiare, il perturbante.
Finito di leggere i racconti di Paolo Zardi, seduto davanti alla finestra socchiusa, sole, calore, l’ultimo racconto s’intitola “Riverbero” e dice: non so se esiste l’anima – se esiste qualcosa di simile in me o negli altri – ma oggi ho provato come una fortissima impressione di eternità.
L’ultima parola, che chiude, o apre, la raccolta, è: eternità…
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… e alcune domande all’autore:
Gianluca Garrapa: Vista, da “Igloo”: dal buio nel quale era immerso il mondo arrivavano quelle voci, e tutte possedevano una luce che lui, prima di allora, non aveva mai saputo vedere: cosa è importante scorgere e cosa non bisogna far vedere, secondo te, in un racconto?
Paolo Zardi: Il racconto vive della sua brevità: è il suo limite e la sua forza. Non c’è tempo per perdersi in dettagli superflui. Ogni oggetto che compare in scena, ogni sguardo inquadrato, ogni paesaggio, devono essere funzionali alla storia. In questa parsimonia materiale, quindi, è necessario scegliere con cura – assomiglia, lo scrivere un racconto, a un problema tipico di una disciplina curiosa e utilissima, che è la “Ricerca Operativa”: il problema a cui penso consiste nel dover riempire uno zaino di capienza finita massimizzando l’utilità di quello che si mette dentro, tenendo conto delle diverse dimensioni. La differenza tra il problema dello zaino e quello di scrivere un racconto sta in un dettaglio importante: la scrittura non è una scienza, e ogni autore trova la propria soluzione, spesso senza sapere bene perché.
G.G.: Tatto, da “Il Ventunesimo secolo”: lui si sedette accanto, le pulì la pelle e iniziò a disegnare con un pennarello. Era chiara, bianca come un morto, e se ne stava distesa, in silenzio, a succhiarsi un ciuffo di capelli: che rapporto esiste tra i corpi e la mente dei tuoi personaggi? Prediligi la mente o la materia?
P.Z.: Il rapporto tra corpo e mente, tra la caducità, l’irruenza, la forza del primo e l’apparente immortalità, l’immutabilità, la distanza dalle cose terrene della seconda, è, a ben vedere, l’oggetto di tutto quello che scrivo. Il corpo è il motore di ogni drammaturgia: cade, si ammala, oppure desidera, brama, vuole. È lui che mette in moto l’azione. La mente, invece, resiste, continuando a inseguire un impossibile ideale di perfezione. Non sempre il dualismo è così esplicito, o così didascalico; ma, di fondo, credo che molte mie storie parlino di una mente incredula di fronte alla violenza che il mondo esercita sul corpo, o alle ineludibili richieste che il corpo porge alla mente.
G.G.: Udito, da “L’ombelico del mondo”: non faceva alcun suono, solo gli occhi le si inumidivano – un fenomeno più idraulico che sentimentale, a voler essere pignoli: secondo te è importante che una frase, oltre al senso, conduca in qualche modo una sua musicalità? Che importanza ha per te la musica, anche come fonte d’ispirazione?
P.Z.: La musica rappresenta una parte bella e importante della mia vita. Dico spesso che se avessi saputo cantare, o suonare bene uno strumento, probabilmente non avrei mai avuto la necessità di scrivere. Ascolto parecchia musica, e devo ammettere di non avere gusti particolarmente rigidi: sono tra quelli che credono che in politica esistano la destra e la sinistra, e che siano due cose completamente, diverse tra loro, ma in musica non ho un partito di riferimento. In una stessa playlist possono esserci Nick Drake e Tiziano Ferro, Rkomi o i Nirvana. Nel mantenere questa flessibilità sono aiutato anche dai miei due figli, Jurij e Matija, di 15 e 12 anni, che portano a casa canzoni sempre nuove. Credo si stia sviluppando un nuovo paradigma, nella musica contemporanea; il fenomeno della distribuzione indipendente tramite Spotify e Youtube ha cambiato le dinamiche con le quali emergono nuovi autori – è una rivoluzione paragonabile a quella della chitarra elettrica alla fine degli anni Cinquanta, uno strumento economico e rumoroso che aveva consentito anche al proletariato di “fare musica”. Ora l’età media dei musicisti si è abbassata in modo impressionante, e questi nuovi autori stanno creando un mondo sonoro nuovo e tendenzialmente auto-referenziale. Dal mio punto di vista di osservatore esterno, riscontro una sorta di faglia tra la musica che ho ascoltato da ragazzo e questa: non vedo un’evoluzione lineare, ma noto, invece, la frattura. E tutto questo mi piace, perché amo quando è possibile assistere alla nascita di qualcosa di nuovo.
Venendo alla mia scrittura, cerco sempre di dare importanza al ritmo, alla musicalità delle singole frasi. Mi è successo, in taluni casi, di immaginare la cadenza che deve avere una certa frase che ritengo necessaria in un determinato momento, e di cercarne solo dopo le parole. Se fossi un cantautore, è probabile che il punto di partenza della mia scrittura sarebbe la melodia.
G.G.: Odorato, da “Il figlio della signora Bastiani”: tutto aveva iniziato ad avere l’odore che hanno le case degli uomini soli, quelli che non hanno né una donna né figli da accudire: cenere, muffa, sudore, fritture a pranzo e cena, birre rovesciate, frutta andata a male: il senso dell’odorato mi fa pensare a quello degli animali che a loro modo ‘vedono’ attraverso gli odori, il proprio territorio: che ci puoi dire di questa componente immateriale e come riesci a farci sentire gli odori attraverso i simboli della scrittura?
P.Z.: Nei corsi di scrittura insistono spesso su questo aspetto: “fate sentire gli odori”. Quando scrivo, non seguo regole; non succede mai che io mi dica “ok, qui ora devo mettere un odore, e tra due pagine il suono di passi in lontananza”. Retrospettivamente, però, mi accorgo di dare una certa importanza all’olfatto che, da quello che so, è il più antico dei sensi, e quello più sottile: siamo in grado di distinguere e memorizzare fino a un milione di odori diversi. Gli organismi pluricellulari più semplici talvolta si riducono a uno stomaco con un naso che indirizza la ricerca di cibo.
Anche tra gli autori che amo di più ce n’è uno che scriveva con le narici sempre aperte: mentre Nabokov si divertiva a descrivere le sinestesie tra vista e udito, Céline si concentrava sugli odori della guerra, quelli dell’Africa, dell’America tumultuosa, delle periferie di Parigi. In Viaggio al termine della notte viene presentata una vastissima gamma di puzze, provenienti dalle più disparate parti del corpo (si dice che questa sua ossessione per gli odori avesse una causa antica: la madre lavorava merletti conto terzi, e a casa, quindi, non potevano esserci odori di cucina, che avrebbero impregnato quelle stoffe: cucinavano solo fettuccine in bianco).
G.G.: Gusto, da “Ombrelloni”: l’orologio del campanile, che si intravedeva a est, segnava le dieci e venti. I vicini di ombrellone, metà russi e metà italiani, avevano tirato fuori delle melanzane impanate grandi come frisbee e la madre le stava distribuendo a tutti i parenti: la tua, mi sembra, è anche una scrittura orale, della bocca, non solo come dialogo, ma proprio come funzione primaria di sostentamento, di soddisfazione fisiologica: che ci puoi dire di questo carnevale narrativo, di questa vena pantagruelica – mi viene in mente Bachtin – che serpeggia nei tuoi racconti?
P.Z.: Nella tensione continua che esiste tra mente e corpo, tra razionalità e istinto, mi piace dare armi affilate a ciascuno dei due contendenti; e il mangiare, l’atto di nutrirsi, il piacere che se ne ricava (un tipo di godimento che fino a qualche anno fa veniva considerato intimamente volgare, e che ora è stato riscattato, e direi quasi beatificato, dai vari programmi di cucina), è uno dei tanti modi con i quali il corpo, la carne, l’istinto, fa valere le proprie ragioni. Un pomeriggio di tanti anni fa, mentre andavo in montagna da un amico, abbiamo visto un supermercato lungo la strada davanti al quale c’era una folla da concerto dei Beatles; ci siamo fermati per capire cosa stesse succedendo e, con un certo stupore, abbiamo scoperto che c’era un’inaugurazione accompagnata da un buffet. Tutta quella gente accalcata, che si spingeva con facce come in un quadro di Bruegel il Vecchio, quei padri di famiglia che avrebbero ucciso per un’oliva ascolana, quelle madri che salivano sulle spalle dei vecchi per un tramezzino, mi ricordavano che la strada che abbiamo percorso da quando ci siamo separati dalle altre scimmie antropomorfe è ridicolmente breve. Si dice spesso che sia il sesso a muovere il mondo; ma sospetto che al primo posto ci sia la gola.