Ho riletto ‘Una giornata di Ivan Denisovič’ di Aleksandr Solženicyn, capolavoro della Letteratura russa (versione aggiornata e non censurata, riapparso da Edizioni Einaudi) tradotto egregiamente da Ornella Discacciati.
Il libro fu pubblicato sulla rivista Novyj Mir nel 1962 in pieno disgelo politico che si ricorderà inaugurato da Kruscev al XX Congresso, quel Rapporto del Segretario del PCUS che sancì il ripudio di Stalin e dello stalinismo nonché il giudizio clamoroso che la fase stalinista fosse stata sic et simpliciter un’inammissibile forzatura dispotica, se non una degenerazione sistemica dello spirito del Socialismo così come inteso da Lenin, lo stesso rapporto che non scorda però di rivendicarne, della fase staliniana, alcuni meriti strategici: prima di tutto la vittoria patriottica contro il Nazismo, molteplici obiettivi economici e tecnologici raggiunti, piena allocazione produttiva della popolazione, diffusa scolarizzazione, efficienza dei sistemi di trasporto e comunicazioni, del sistema sanitario, ripresa produttiva del settore agricolo, crescita esponenziale delle esportazioni di materie prime ed estrattive, a livello internazionale l’essere una potenza militare e planetaria pari a quella americana.
Dopo questo rinnego, o abiura ufficiale del passato recente e la riprovazione clamorosa dei precedenti metodi repressivi, il passo successivo sarebbe potuto essere un processo democratico con annesse libertà di stampa e d’opinione, (più arduo un percorso di multipartitismo che avrebbe ingenerato resistenze ferme ed inevitabili, nel Comitato Centrale e nel Politburo nonché nell’Esercito).
In questo contesto di speranza di un Socialismo emendabile dal volto umano, ‘Una giornata di Ivan Denisovič’ deflagra come il più ardito passo della nuova era che si è aperta dopo il XX Congresso del PCUS, dopo il Rapporto Kruscev (in buona parte tenuto secretato), la prima opera letteraria in assoluto a raccontare il Gulag, nel solco stilistico di Tolstoj, nella stessa ambizione di raccontare la Storia, Tolstoj iscrivendo i fatti nel periodo zarista, con al centro il Caucaso o la Guerra di Crimea, o durante l’invasione napoleonica, l’altro invece immerso da prigioniero nella tragedia del Comunismo applicato, con questa tragedia vissuta sulla pelle, martire e testimone della durezza di una rivoluzione che si difese all’interno e dall’esterno. per poi arrendersi alla tirannia e ciò in nome della difesa dello stato Socialista ma senza più anima, estro, cuore, con un consenso ridotto agli apparati, una restaurazione in realtà tutta rivolta ora a sancire più che il Comunismo la supremazia russa sulla Confederazione (CCPP) e al contempo esprimendosi nel tessuto civile come una degenerazione cruenta della Nomenclatura in direzione di un sistema paranoico, autoreferenziale e sostanzialmente poliziesco,
Quando apparve sulla scena pubblica russa e sovietica questo romanzo fulminante ed ispirato, suscitò qualcosa di inconcepibile nella società sovietica più avveduta, avvenne un vero punto di svolta politico, la prova di un’apertura possibile ai diritti civili, per la prima volta si osava descrivere la realtà dei campi di detenzione sovietici e ciò in una cruda narrazione di cui era evidente, il senso, lo stigma comunicativo della verità, nulla a che vedere con la vulgata occidentale che pur dagli anni ’20 denunciava gli abusi dell’apparato repressivo e carcerario in tutta l’Unione Sovietica.
Come per il comunista deportato nei lager Victor Serge, ‘Una giornata di Ivan Denisovič’ viene scritto da un ufficiale dell’Armata Rossa, un fervente comunista, colpevole di aver stigmatizzato in una lettera certe scelte militari del Compagno Stalin alla fine della ‘Grande guerra patriottica’, per cui si ritrova degradato, bandito, defraudato d’ogni diritto, privato degli affetti, per essere confinato per anni in un campo di lavoro forzato, nelle terre più fredde, selvagge e desolate del Kazakistan e del Pianeta.
Una narrazione precisa, priva di astio ideologico, persino avulsa da ogni idea di rivalsa, descrive una giornata ordinaria di vita del campo, dalla sveglia alla ritirata, il lavoro duro nel gelo, la mensa, i rapporti tra camerati, le guardie deplorevoli o meno, lo lotta quotidiana per sopravvivere, per mangiare di più, per scaldarsi, per non farsi derubare o mettere i piedi in testa dai vari sopraffattori, prigionieri o guardiani, come in società ci sono malfattori e violenti, oppure ritratti di deboli, quelli che non resistono e finiranno per cedere, esattamente come succede fuori, ma fuori con minore incidenza della durezza, anche se la durezza colpisce dappertutto in anni di carestie e fame nonostante la vittoria bellica, quel fuori dai confini del campo, quel perimetro sino all’orizzonte che non ha confini di là del reticolato verso la piana gelata sconfinata, nelle foreste inestricabili nel gelo a -40 gradi per distanze di settimane di cammino, per cui sarebbe vano, mortale ogni tentativo di evasione.
Il romanzo certamente ha contribuito molto ad installare il dubbio, il sospetto, la delusione specie nel campo comunista sulla verità indigesta dei Gulag in cui migliaia di oppositori politici, esponenti del dissenso, comunisti critici del regime, anarchici e poi supposti trotzkisti, semplici indiziati, hanno trovato la morte, sfruttati nei campi di lavoro per produrre materie prime, per edificare ponti e linee ferroviarie, bacini idroelettrici, dighe, scavare miniere, deviare fiumi, impiantare fabbriche nel nulla delle steppe, un sistema di sfruttamento della manodopera quasi a costo zero che molto contribuì all’edificazione industriale cosiddetta socialista e che invece si impresse nella memoria di tanti come una macchia indelebile su una teoria che professava la liberazione dal lavoro salariato, dignità ed ‘uguaglianza tra tutti gli uomini.
Nel campo di detenzione la squadra è fatta in modo che il capo non abbia bisogno di aizzare i detenuti, ciascuno è responsabile dell’altro e un suo errore si propaga all’intera squadra. Fra un supplemento di rancio, una presa di tabacco, il filo per rammendare gli stivali di feltro, un bottone, un sorso di alcol denaturato, tutto è commerciabile, tutto serve per sopravvivere ma sbaglia chi vi scorga una somiglianza coi campi di concentramento nazisti dove il fine era l’eliminazione tout court degli internati, in una quotidianità in cui si stenta a vivere il giorno dopo. Nei Gulag si muore di durezza delle condizioni di sopravvivenza, mai per sterminio calcolato. Nei Gulag viene a galla una vita povera ma non di stenti, organizzata certo per il lavoro collettivo forzato, ma in tempi durissimi per tutti, anche per chi stava fuori dal Gulag.
Magnifica rilevazione e centro nevralgico del romanzo la parte del racconto dove Shushai finisce di costruire il muro assieme all’aiuto degli altri, tutti presi dal ritmo, dall’arte di erigere un muro, un muro importante che se costruito bene e innalzato in giornata avrebbe procurato un premio, maggiori razioni di cibo, un giorno di riposo, per altri forse assegnamenti ad altri incarichi, ciascuno sincrono si muove al ritmo della squadra, ognuno sarà da ora muratore, chi solo memore di carpenteria, una squadra tuttavia non priva di esperti che presto diviene una macchina di efficienza, d’abnegazione, c’è un ardimento inedito che distende l’anima, la fa risorgere dall’abbrutimento, scalda dal gelo ma al contempo apporta fierezza di quanto s’erge solido per mezzo della mente e delle mani, eppure, qui Aleksandr Solženicyn pare dirci qualcosa d’altro: il vero comunismo nasce e trionfa qua, solo supportato dal gruppo il lavoro si trasforma da lavoro alienato, finalizzato al profitto di pochi, ad un sostentamento che coniughi al puro gioioso completamento, il comunismo sta tutto qua in questa armonia tra eguali riuniti per edificare qualcosa di vitale, fosse anche un muro di recinzione, il medesimo concetto cui Marx anelava: il primato connaturato all’uomo di ergersi come fautore del suo destino, forgiatore di un futuro dove vivere in pace, fratelli e sorelle uguali d lavoratori.
Liberi per una volta dall’alienazione del lavoro imposto, ora la libertà in questo angolo sperduto del mondo si rileva epifania del lavoro eseguito ad opera d’arte, si è fuori dall’idea stessa di fuga dallo sfruttamento o d’invidia sociale, s’acquista persino più competenza nel farlo, sei parte di una confraternita in cui il valore di uomo si commisura adesso attraverso uno sforzo titanico comune, perciò gli si dedica ogni fatica, creatività e perseveranza, questi detenuti di varia estrazione, di nazionalità disparate, nel sostanziale status depressivo che una condizione carceraria durissima riserva ad ognuno in forme di ferite interiori, divergenze, di indifferenza, di egoismo che non potrà ergersi a solidale perché ognuno concentrato a sopravvivere al gelo, al lavoro atroce, in balia di piogge o sferzati, allibiti dal vento implacabile del Nord Artico, se non seppelliti nelle cavità di miniere inenarrabili a picconare e spalare.
Uno dei libri più onesti scritti sui Gulag, dove lo stesso protagonista si muove nella scena con cautela e scaltrezza, come una faina sempre pronta a tutto pur di profittare delle circostanze.
Da leggere, uno dei capisaldi della letteratura di sempre, un libro che squarcia l’ipocrisia di un regime avviato ormai lungo una deriva populista e nazionalista, con una classe dirigente intenta a preservarsi dominio incontrastato del paese, un regime dispotico che col marxismo non ha più nulla in comune se non la proprietà dello Stato, le collettivizzazioni, la toponomastica, le insegne e gli slogan.
Insomma una rivoluzione tradita dopo la morte di Lenin e quindi debellata definitivamente con l’esilio di Trotsky ad Alma Alta, con le purghe di ogni opposizione interna al Partito così redarguite da Gramsci in prigione con timore, poi con lo sgomento di chi si sente tradito, isolato, lo stesso sgomento provato da un altro ex comunista, Victor Serge di cui ho in programma di recensire presto l’opera fondamentale.
Dopo l’assegnazione del Premio Nobel nel 1970, la sua espulsione dalla Russia nel 1974, la scelta dell’esilio negli Stati Uniti, il suo ritorno in Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica, Alexander Isaevich Solgenitsin, muore a causa di una insufficienza cardiaca all’età di 89 anni, la sera del 3 agosto 2008.
Al di là dei suoi indubitabili meriti di scrittore, della tenacia con cui ha svelato e combattuto il regime sovietico con la forza dei suoi libri (Arcipelago Gulag e Divisione Cancro in primis) rimane che al suo rientro in Russia fosse retrocesso a posizioni filo ortodosse e monarchiche, con spunti antisemiti assai gravi. Dice di lui il Prof. Cesare Giuseppe De Michelis: “Due volumi per parlare della storia degli ultimi due secoli di convivenza fra russi e ebrei, dove il “noi” (russi) e il “voi” ebrei si fa martellante e l’accusa di aver puntellato la rivoluzione del 1917 striscia fra le pagine come il grande serpente della congiura fra le pagine dei Protocolli. Nessuna professione formale di antisemitismo, per carità. Ma quantomeno un clima di malsana ambiguità e l’asserzione che la minoranza degli ebrei è per sempre destinata a restare un corpo estraneo. E in un modo o nell’altro dovrebbe scusarsi di esistere”.
Scrive infatti Solgenitsin: “Nella lunga e caotica storia umana, il ruolo svolto dal popolo ebraico – poco numeroso ma energico – è innegabile, anzi considerevole. Questo vale anche per la storia della Russia. Ma per tutti noi, questo ruolo rimane un enigma”, Solgenitsin ancora: «C’è pericolo che questo si ripeta? E’ in questo spirito che il popolo ebreo deve rispondere dei suoi rivoluzionari assassini e delle colonne di individui che si misero al loro servizio. Non si tratta qui di rispondere davanti agli altri popoli, ma davanti a se stessi, alla propria coscienza e a Dio».
Marcello Chinca