Pasolini come non l’avete mai letto. Alessandro Gnocchi arriva nelle librerie con “PPP. Le piccole patrie di Pasolini” per La Nave di Teseo. Mai come in questo caso la confidenzialità delle tre P è giustificata: dove in altri libri – tantissimi in arrivo per celebrare i cent’anni della nascita del poeta, scrittore, saggista e regista friuliano- l’acronimo diventa la sigla di un marchio, di un autore da dissezionare in ogni sua parte, tra queste pagine si respira la stessa innocenza di fondo di Pasolini.
Gnocchi non fa un panegirico del poeta, non scrive un’agiografia ma con la confidenza dello studioso che non dimentica di essere anch’egli un “corsaro”, con la poesia di chi non dimentica di aver seguito pagina dopo pagina le impronte di Pasolini, ci consegna per la prima volta un volume che non racconta le orme pasoliniane ma ne racconta appunto le impronte.
Se Pasolini ha avuto una lite d’amore con il mondo e ne è uscito miracolosamente illuso, tanto da finire assassinato, dall’altra parte oggi Gnocchi ne racconta i gesti bianchi, quei viaggi nell’animo della geografia del ricordo di un Pasolini che non ha mai voluto che gli fosse lieve la terra. Al di là della città di Roma, il luogo che infine l’ha martoriato illudendolo di fallire, Pasolini conduce un corpo a corpo con le città che non visita ma abita. Anche per pochi giorni: Pasolini le città le esplora.
Gnocchi lo ha seguito lasciandosi trasportare come Pasolini fosse una guida.
Tra tanti turisti della vita il Pasolini che racconta Gnocchi è un uomo e un artista che assorbe ciò che vede ma non se ne fa trafiggere. Le città che visita nel Nord d’Italia -da Cremona a Milano, da Mantova a Bologna- che siano per pochi giorni o per anni per Pasolini diventano “piccole patrie” che Gnocchi rende perfettamente.
Perché senza alcuna presunzione le attraversa come se Pasolini fosse un compagno di ventura: se ne intuisce lo sguardo, il cuore, le fatiche e i ricordi, La meglio gioventù e soprattutto quegli attimi di respiro d’illusione che Gnocchi riesce a mettere nero su bianco. Anche i grandi “maestri” di Pasolini – da Gianfranco Contini a Roberto Longhi- qui non diventano materiale da accademia, ma pur con rigore accademico qui contano gli uomini. In questo centenario Pasolini avrebbe voluto il silenzio perché le sue idee sono diventate corpo dilaniato del pensiero di massa: paradossalmente la stessa massa che Pasolini voleva aiutare adesso lo fagocita, fa scempio del suo corpo narrativo, delle sue frasi come dita di ragno sulla realtà del presente. Alessandro Gnocchi in Piccole Patrie ne accarezza invece il silenzio che Pasolini avrebbe voluto e noi con lui ci perdiamo nei gesti d’amore quelli più sussurrati, quelli più nascosti, quelli più inediti, quelli che sono davvero l’anima di Pasolini che, se non fosse partito dalle sue “piccole patrie”, oggi forse leggerebbe questo libro come un compagno di ventura.
Gian Paolo Serino
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Anche i tetti, visti dalla terrazza di via XI Febbraio, sono un mare rosso ma non è il mare omerico, è il mare dei grandi porti industriali, un susseguirsi di depositi, scali, impianti, stazioni, cantieri, antenne, darsene. È un mare di armatori, non di pirati, dove svetta il faro della torre simbolo della città, il Torrazzo. È la guerra russo-cinese a imporre questa svolta ai sogni a occhi aperti. Scoppiata nel gennaio 1934, Pier Paolo ne viene a conoscenza attraverso fotografie intraviste su una copia della Domenica del Corriere dei vicini di casa. I tetti… Salite in cima al Torrazzo e guardatevi attorno: dall’alto, la città è una goccia di sangue incastrata nel verde dei campi e protetta dal blu quasi nero del fiume. Nel 1947, Pasolini risponde da Casarsa a una lettera del filologo Gianfranco Contini, che in quel periodo è a Cremona: “Lei è a Cremona! Ma non sa che questo fatto non solo ‘mi colpisce in pieno petto’ ma me lo devasta? E per di più i tetti, proprio quelli che io per tre anni (dai dieci ai tredici) vidi dalla terrazza della casa in via XX Settembre dove fui il vecchione dell’ultima pubertà.” Sorprende l’errore nell’indicare il proprio vecchio indirizzo, che in realtà è via XI Febbraio. Sorprende ma non più di tanto: le vie sono attigue, entrambe scendono dal Duomo verso Porta Romana, e non è infrequente confonderle, parlando. Pasolini è emozionato al pensiero che il suo amico e mentore si trovi “nell’unico luogo del mio tempo non an- cora sconsacrato”. Il ricordo è un fiume in piena: “Corso Campi, i giardini pubblici, la ‘Baldesio’, il ‘Ponchielli’, eccoun’altra malattia, a cui la sua presenza dà quella specie di felicità con cui quei posti mi ricompaiono nel sogno.” Pasolini dirà a Dacia Maraini in una intervista pubblicata poi in E tu chi eri? (1973) che i giorni precedenti l’estate 1934 furono “tra i più belli e gloriosi” della sua vita.
Pur essendosi fermato in città per tre anni, Pasolini aveva capito Cremona. Ne ho le prove. Pasolini racconta di essere stato accolto come uno straniero e di essere rimasto a poco a poco ipnotizzato dalle architetture che non hanno niente di particolare, non sono troppo umili ma neanche troppo aristocratiche. Eppure, forse proprio per questo, ti si infilano sotto la pelle: non ti cercano e non ti respingono. Ti lasciano decidere. Se scegli di fare parte della loro storia, rischi di rimanere stregato e di non aver più voglia di superare i confini delle antiche mura. È il bello della provincia e anche la sua tragedia. Giunto alla seconda primavera in città, Pasolini sente “un’eco già definitivamente amica, che, come una volta per sempre, imprimeva il suo carattere all’angoloso quartiere raccolto dietro il Duomo, all’intera città sede di un’esistenza che la riempiva come la sua aria stessa, muta, bianca, domestica, senza contorni” (Operetta marina, p. 150). La sensibilità per il dialetto ascoltato dai vicini è una parte non indifferente del sentirsi a casa in “quella Cremona divenuta mia patria” (Operetta marina, p. 151). Il cortiletto di casa Cavalli, i vicini appunto, all’apparenza insignificante, assurge a simbolo dell’intera provincia padana. È un cortile incerto se essere piccolo-borghese o piccolo-patrizio ai tempi delle campagne napoleoniche, poi un cortile manzoniano convinto di essere al centro, lì in periferia, della società cattolica, quindi un cortile italiano, ma negli anni trenta già vecchio di una vicenda nazionale sempre più volgare, in marcia verso una modernità brutale di corazzate e non di giunche o spingarde, in marcia verso la fine di una civiltà, che evapora nella quiete di un pomeriggio afoso. Pasolini non usa mai a caso la paro- la “Patria”, quasi sempre accompagnata da “Piccola”. Le Piccole Patrie, come Cremona, come Casarsa, per Pasolini hanno sempre un profondo significato esistenziale, culturale e politico. Le Piccole Patrie sono la verità della vita, della lingua e dei rapporti sociali.
Quando si congeda dalla città, Pasolini giura solennemente di rimanerne per sempre “un patriota”. Cittadino Pier Paolo, tu guardavi dentro al nostro cuore
Alessandro Gnocchi