Mio caro Proust, da qualche giorno non lascio più il vostro libro; me ne sazio con diletto, mi ci sprofondo. Ahimè! Perché deve essermi così doloroso amarlo tanto?
ANDRÉ GIDE
Da Mondadori arriva questo Proust senza tempo, libro di Alessandro Piperno che è, per prima cosa, un’esplorazione della materia letteraria dello scrittore della Recherche e, allo stesso tempo, un avvicinamento a una serie di “maestri” in qualche modo avvicinabili a Marcel Proust.
Tutto prende le mosse da una copia de Dalla parte di Swann, ricevuta come dono natalizio, un volume rilegato in similpelle blu con intarsi dorati, un testo destinato a cambiare il destino letterario del giovane lettore, che ne rimarrà profondamente affascinato, ma anche – in qualche modo – il corso dell’esistenza.
Così, a distanza di tanti anni, Piperno fa rivivere quell’incontro dondamentale, analizzando le ragioni che hanno fatto di Proust l’autore che maggiormente lo ha ispirato e, inoltre, che è diventato il metro di paragone con cui leggere molti altri scrittori da lui profondamente amati, come Virginia Woolf, Nabokov, Joseph Roth, e lo stesso Céline, che certo non fu un estimatore della Recherche. Un’avventura intellettuale, a ben vedere, a cui abbandonarsi con piacere sottile e, allo stesso, tempo, una sorta di recherche.
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E dire che ce l’hai messa tutta per prepararti. Eri certo di essere pronto ad accoglierlo, convinto che l’avresti sentito arrivare. E invece, esattamente come a chiunque altro, il Tempo ti ha colto alla sprovvista.
Un doloretto che tende a cronicizzarsi, la deferenza di un giovane collega, lo sguardo indifferente di una ragazza, quella maledetta rimpatriata coi compagni di liceo che avresti fatto meglio a risparmiarti.
Cosa credevi? È così che comincia. Con l’idraulico venuto a ripararti un guasto che attratto da una vecchia foto ti dice: «Quindi da giovane lei non portava la barba?». Con lo specchio che da una certa mattina in poi prende a oltraggiarti. Sorvolando sul resto, a impensierirti è soprattutto il busto: di questo passo raggiungerà le dimensioni massicce che tanto deploravi in quel vecchio zio volgare e diabetico. Sul piano emotivo sei conciato persino peggio, ogni giorno più simile a Fëdor Pavlovič Karamazov: sordido, malvagio, sentimentale.
Il guaio è che non ti senti più vecchio di quando avevi vent’anni. Anzi! Che non sia questo il tormento che la natura infligge agli organismi in dismissione: dilatare a dismisura lo squilibrio tra il corpo ammaccato e i palpiti di un cuore che non si dà pace?
Desideri, smanie, ambizioni sono ancora lì, al solito posto. Peccato che siano sempre meno le opportunità di soddisfarli. Tanto varrebbe abituarsi, ma niente come lo stoici- smo rivela l’entità dello sfacelo in atto.
Allora ripensi ai romanzi. Ti chiedi se la passione che da sempre ti ispirano non sia valsa da esorcismo, se non addirittura da profezia. Un interrogativo che basta a mettere in crisi le poche convinzioni estetiche di cui disponi. Dopotutto, hai sempre avversato l’idea che il tuo amore per la narrativa potesse avere degli scopi, a meno di non considerare tali il piacere prodotto dalla finzione, il conforto offerto dalla forma, lo strazio inflitto dalla verità. Ti vanti di non aver mai unito la tua voce al coro di chi cercava nella letteratura un senso capace di trascenderla. Quante volte hai ripreso lo studente che ti spiattellava in faccia la classica castroneria da esame: «Ecco, qui Flaubert vuole dire…». No, caro ragazzo, qui Flaubert non vuole dire un bel niente. Qui Flaubert dice. Per l’amor del cielo, col mazzo che si faceva non c’è nulla che Flaubert abbia voluto dire che non sia riuscito a esprimere nel modo più limpido, preciso ed elegante.
Per un attimo sei tentato di dare ragione allo studente: forse tutti i romanzi che hai letto, spulciato, chiosato avevano davvero qualcosa da dirti. Forse eri tu a non essere nella disposizione d’animo per ascoltarli. Ora che ci pensi, non ce n’è uno, di quelli capaci di avvincerti e a cui tornare spesso e volentieri, che non abbia trovato un modo tutto suo di scolpire il Tempo.
Ecco a cosa mirano i romanzi allora: a immergerti fino al collo in quel brodo primordiale. In un processo molto si- mile alla metempsicosi, ti permettono di reincarnarti in altri esseri; per un attimo ti assale un brivido d’eternità, salvo scoprire che anche qui, in questo universo parallelo, non c’è eroe, intreccio, paesaggio urbano o rupestre; non c’è amore, aspirazione romantica, crisi spirituale; non c’è faida, resa dei conti, delitto, redenzione; non c’è niente, insomma, che possa resistere allo sgretolarsi dei giorni. Vien quasi da pensare che dalla mattina in cui, qualche migliaio di anni fa, una vecchia nutrice di Itaca riconobbe il suo padrone da una cicatrice sulla coscia, dando guazza ai ricordi, niente fu più lo stesso.
Che non sia questo gioco a rimpiattino con il Tempo a rendere le opere narrative così atroci?
È vero, non mancano narratori di un certo peso che si sono ribellati a questa tirannia. Che, pur di contrastarla, hanno creato a tavolino strutture astratte, ambienti disadorni, personaggi inerti, privi di spessore psicologico, cristallizzati in un presente eterno e senza scampo. Esperimenti velleitari. Tali ti sembrano oggi. Forse perché a cinquant’anni suonati, la maggior parte dei quali trascorsi a leggere romanzi, e a scriverne, una cosa ti pare di averla imparata: il Tempo per la narrativa è come l’ossigeno per l’essere vivente, questione di vita o di morte.
© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano
I edizione settembre 2022