È sotto l’egida vertiginosa dello scomparso scrittore cileno – scomparso ma purtuttavia sempre monumentale e basilare – che Alessandro Raveggi affronta la sconfinata metropoli messicana con il suo A Città del Messico con Bolaño, in uscita da Giulio Perrone Editore nella sempre più interessante collana “Passaggi di Dogana”. Raveggi intraprende un viaggio, che è allo stesso tempo processo di smarrimento e di riorientamento, scandito e strutturato in mappe – dalla Mappa delle Mappe alla Mappa di Roberto, dalla Mappa delle Acque alla Mappa per Trovare l’Uscita – attraverso le quali tenta di sbrogliare l’immane matassa rappresentata dal “mostro” metropolitano in tutte le sue declinazioni. Tutto, infatti, contribuisce alla narrazione e quindi alla scoperta e alla interpretazione del dato urbano: geografia, storia, arte, cucina, eros, archeologia, ma anche asfalto, sporcizia e rottami automobilistici. Perché raccontare una città, e non solo attraverso il filtro della visione letteraria – tra le mappe compare anche quella dedicata alle Stazioni di Roberto – non ha nulla a che fare con il turismo. A Città del Messico con Bolaño non è un libro di viaggio: è letteratura dei luoghi e, ancora di più, è un’avventura intellettuale.
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Insomma, io mi trovavo in un indolente confinamento sanitario sospeso tra l’aria
mortifera fuori dai balconi e il senso profondo di noia borghese e sicura del mio appartamento di Firenze, a sognare inaspettatamente Città del Messico. O meglio a vagheggiarla nei ricordi.
Troppo facile connessione, forse, perché ogni Città Impossibile va a braccetto da sempre con l’Apocalisse. E Città del Messico ci va in tanti modi, diversi a mio avviso rispetto a una Pechino o a una Mumbai, a una di quelle decine di sovrappopolate città irrespirabili a oriente, dove vivono e si stritolano miliardi di persone inzeppate che poi periscono, e non se ne sa niente come di una zanzara schiacciata nel Borneo – e, insomma lo vedremo, vedremo quel senso di ultimità costitutiva e assieme rimandata che possiede Città del Messico –, perché cos’è l’Apocalisse se non anche una scusa perfetta o meglio La Scusa Perfetta e Scenografica per Rimandare la (vera) Fine, che viene sempre prima del senso di originalità? A dispetto del fatto che Città del Messico è anche una città profondamente originale, autentica. Non solo perché radicata da sempre in una mitologica Fondazione lagunare sul lago di Texcoco, ma in quanto profondamente vissuta da molti strati differenti di umanità, etnie, lingue, stili di vita. Per quanto sia una città sorprendentemente infida verso il viaggiatore: ad esempio, nel 2009 mi sono trovato nell’incipit più spettacolare di una pandemia scampata, io appena arrivato in città, esaltato dalla novità di quel trasferimento, a confrontarmi senza pensarci due volte con un’orda simbolica di maiali infetti, e con l’esercito per strada che intimava di rintanarsi nelle case: ecco il primo rapporto con il Mostro visto dallo schermo di cui parlavo prima, dalla distanza di un finestrone di casa messicana, le palme del viale antistante come intristite dal tempo sospeso di quella (quasi) pandemia, la famosa Suina.
Da dove cominciare, quindi? La Città Impossibile, il luogo dove ero stato magneticamente trattenuto per più di quattro anni della mia vita, che mi aveva sconvolto, cambiato, camuffato, esterrefatto, innamorato e poi stufato amaramente, mi richiamava… Io mi misi a fare la cosa più scontata e più paradossale che si possa fare oggi, ovvero: accendere il computer, andare ratto ratto su Google Maps, digitare piano piano le vie in cui avevo vissuto, inquadrare di sghimbescio, per poi rimirarmeli io stesso più volte da varie angolature, i già citati finestroni luminosissimi della mia prima casa in avenida Doctor José María Vértiz; o i balconi sbrecciati della mia seconda casa in calle Puebla; o ancora l’imponente cancello color perla che sbarra la vista della casa su due piani dei miei suoceri in calle Guadalupe, mentre gli uccellini cinguettano fuori e il famigerato Anillo Periférico (la temibile e scombussolante circonvallazione che stringe come un serpentone la città) a pochi metri ruggisce balzando nella selva di smog giorno e notte – se leggete questo mio racconto come una mappa utile peril viaggio nella megalopoli (o sicuramente per perdervici), e volete passare a salutarli per me, sappiate che a) esistono sicuramente una decina di calles Guadalupe a Città del Messico nella lista di ricerca di Google e b) qualora la indovinaste, dovrete passare noiosamente dal check-in di una guardia giurata che vi chiederà molti documenti, perché la strada è, come in realtà non poche in città, privata, e oltretutto piena di telecamere – ma questo forse è un suggerimento troppo grande, e quindi vi prego, se vi capita, di recare i miei saluti ai miei cari suoceri, gracias!).
Mi trovavo così lì, scomodamente seduto nella mia realtà fiorentina, davanti però a quel mondo virtuale e familiare assieme, con le scritte in spagnolo, las avenidas, las calles, las calles privadas, las plazas, los parques, e ovviamente i raccordi anulari e le sopraelevate… Perché la Città Impossibile si mangia così tanto lo spazio in terra da conquistare a suo modo anche il cielo, costruendo su più livelli ponti e pontili dove sfrecciano SUV enormi. Mi trovavo lì nella speranza di vedere cosa, però? Chissà, forse volevo accedere alla vita come era stata vissuta, da me, senza prescindere dalla presenza degli altri, amici, conoscenti, fantasmi.