Un corposo saggio di cui, per contro, non dirò che la lettura sarà però facile. In cinque capitoli suddivisi al loro interno ognuno in numerosissimi paragrafi tematici, l’autore vicentino Alessio Mannino ci accompagna sì come un nocchiero tra i meandri, meglio, tra i gironi di quel pensiero unico liberale il quale, a partire specialmente dal triennio 1989/’91 ha assunto sempre più il ruolo di Pensiero egemonico con l’iniziale maiuscola, stante l’assenza di un proprio ufficiale e altrettanto potente contraltare.
Più che giornalista, Mannino è da considerarsi un polemista: nella terza di copertina egli è definito in entrambe le maniere, ma a chi – come il sottoscritto – ha avuto modo di leggerlo e anche conoscerlo di persona, pare indubbio che sia il secondo attributo quello che più gli calza a pennello, senza con ciò nulla togliere alla sua capacità e passione giornalistica. Termine tanto più calzante in quanto estrinseca – in Alessio – il suo significato primigenio, che per la verità è andato parecchio edulcorandosi e anzi sbiadendosi nel corso del tempo: non dunque una semplice, talvolta sterile polemica in senso stretto, quanto una consapevolezza accompagnata da una indubbia volontà di creare conflitto (in greco: pólemos) con le proprie parole, tra le righe vergate.
Ogni singolo paragrafo, pur essendo accorpato ad altri ad esso simili per macrotematica, parte a modo suo dal presupposto della tanto agognata libertà, scendendo più nello specifico: di una lettura di questa in un particolare campo d’azione o ambito intellettuale. Perché il minimo comun denominatore riscontrabile lungo tutte le quasi 500 pagine del tomo in questione è, nei fatti, un quesito: “[…] Ma siamo proprio sicuri che libero significhi poter realizzare le mie piccole fantasie, gironzolare dove mi pare, starnazzare la mia opinione più o meno scopiazzata e non molto altro? E se invece la libertà fosse un duro, costante, divorante impegno a rispondere, a reagire, ad assumermi la responsabilità del governo di me stesso e della comunità che mi ospita? […]”. Insomma, una rilettura polemistica (disciplina, questa, che a mio modesto parere non va affatto disgiunta dalla filosofia) dell’annosa dicotomia libertà da/libertà di (altrimenti detta: libertà negativa/libertà positiva) di hobbesiana memoria.
Il capitolone (mi si perdoni il termine colloquiale) che maggiormente ha catturato la mia attenzione, vuoi per lo stile al contempo tecnico e “comiziale” che vi si ritrova, vuoi per il banalissimo fatto che le tematiche ivi contenute, assai peggio di Alessio Mannino ma anche io ho cercato, tutt’ora cerco e ancora cercherò di sviscerare, è il secondo, ed è titolato Dialettica del liberalismo. Particolarmente degni di menzione i paragrafi cui l’autore affida il compito di classificare la varie forme che il pensiero liberale (perfetto sinonimo o “solamente” antesignano del pensiero unico?) ha assunto nel corso del tempo: nume tutelare del vitalismo liberale è il filosofo neo-idealista Benedetto Croce, mentre “il liberale più insidioso” risponde al nome del liberalsocialista Norberto Bobbio e proprio a causa del suo trincerarsi dietro quel “socialista” parte finale della denominazione di quell’ircocervo che è l’ideologia di cui è tra gli esponenti maggiori, assai probabilmente scusante per sentirsi in diritto di non essere appieno né l’una né l’altra cosa; ci sono poi il liberale immaginario e proto-azionista Piero Gobetti, morto a 25 anni ancora da compiere durante l’esilio francese poiché antifascista ma Oltralpe comunque raggiunto dai suoi aggressori e perito così anzitempo perché le percosse subite ne aggravarono le già delicatissime e precarie condizioni di salute e il Mao (nel senso di Grande Timoniere) del neo-liberalismo (che è comunque cosa un po’ diversa dal liberalismo propriamente detto) Friedrich von Hayek. Coerentemente con le sue intenzioni di lotta serrata e senza quartiere a tutto ciò, Mannino non manca neppure di concedere un ideale onore delle armi a quei liberali che definisce coerenti e che sono coloro la cui posizione socio/politico/economica sfocia in ciò a cui ogni forma di pensiero di tal fatta, in maniera più o meno latente, ambisce, ossia all’ananrcocapitalismo più radicale, il miniarchismo ad oggi bandiera esplicita dei libertarians statunitensi.
La lettura di questo capitolo che occupa più di 150 pagine ha riportato alla mia memoria le diverse opere di un autore che – mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa! – per mia mano non ha ancora trovato uno spazio suo proprio tra le colonne di Satisfiction, ma che ho perlomeno citato un’altra volta contestualmente ad una mia recensione: alludo al sociologo liberale Carlo Gambescia, e in special modo al suo “Liberalismo triste. Un percorso: da Burke a Berlin” (Edizioni Il Foglio, 2012), nel quale “la sostanza esaminata è il liberalismo, e in particolare un certo tipo di liberalismo, che l’autore definisce triste: un liberalismo consapevole delle durezze della libertà politica, un liberalismo non ridens, perché non confida in alcuna provvidenziale armonia, né del mercato, né di altro genere, ma assolutamente cosciente di un fatto fondamentale: che si comanda alla politica ubbidendo alle sue leggi”. Partendo da presupposti chiaramente differenti, Mannino da quello antiliberale, Gambescia da quello liberale, e anche ambendo a due traguardi tra loro contrastanti, ossia il primo alla sconfitta del pensiero unico liberale, il cui stato di vittoria attuale egli definisce provvisorio e perituro, il secondo speranzoso in un futuro “autenticamente liberale” per quante più persone possibile, ma al sottoscritto è parso che un piccolissimo tratto della strada intellettuale percorsa possa dirsi comune ai due autori.
Un saggio enciclopedico “Disciplina del Caos”, e non soltanto per la ragguardevole imponenza quanto soprattutto per le diverse modalità di approccio che permette: infatti, compulsando il ricchissimo indice (sul quale, in conclusione, intendo tornare per rivelarvi la chicca che contiene) si avrà ben donde che lo scritto in questione lo si può (anche) consultare oltre che leggere; per eccesso di originalità, se si volessero affrontare i numerosi paragrafi dall’ultimo retrocedendo fino al primo, nulla del senso sotteso all’opera ne risulterebbe modificato: la proprietà commutativa della polemologia!
Infine, il cesello di cui poco sopra ho fatto menzione è l’Appendice, sei interviste ad altrettanti pensatori “contro il pensiero unico liberale” le cui chiose fungono da monito a tutti, anche e soprattutto ai liberali: perché, se all’entrata nel mondo nichilistico e caotico del pensiero unico era scritto di lasciare ogni speranza, ora che pare intravvedersene la fine è bene che anche delle suddette speranze vengano ripopolati gli intenti dell’uomo. Delle conclusioni da addetti ai lavori all’opera (tra quelle che ho letto) migliore di chi non ritiene deficitario non essere “del mestiere”, posizione che in un’epoca di autoproclamatisi professionisti quale è l’attuale è più che una boccata di aria fresca.
Alberto De Marchi