Una delle qualità fondamentali della lingua e dello stile di Leopardi è senza dubbio la varietà. Una varietà linguistica e stilistica che è in primo luogo il riflesso della varietà di generi letterari che egli ha sperimentato: dalla lirica suprema dei Canti alla poesia narrativa e corrosiva dei Paralipomeni, dalla prosa fantastica e metafisica delle Operette a quella monolitica ed “europea” dei Pensieri, fino all’Epistolario e lo Zibaldone. Esperimenti che hanno avuto la forza di innovare in profondità, talora dalle fondamenta, il modo di fare letteratura in Italia e fuori da essa.
«La lingua italiana è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli scrittori che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole.»1
Leopardi era consapevole dello stretto rapporto che lega la lingua alla cultura e alla nazione: «La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlarono o la parlano, e la storia delle lingue è la storia della mente umana».2 Ma nel momento in cui egli sposta il problema teorico della lingua a quello dei parlanti e alla storia delle idee veicolate appunto tramite la lingua s’imbatte nella dicotomia categoriale insita nella prospettiva sociolinguistica di ogni idioma: da una parte il punto di vista che privilegia l’uniformità e l’omogeneità e dall’altra quello che sottolinea la varietà e la molteplicità. Il prevalere di una delle caratteristiche sull’altra è strettamente connesso al tipo di organizzazione sociale di cui la lingua è uno strumento comunicazionale.3
In Italia, l’assenza di unità della nazione ha affidato un ruolo fondamentale, nella omogeneità normativa linguistica, al primato artistico e letterario svolto tra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo da Firenze e dalla Toscana. Ma questa omogeneità, secondo Leopardi, sarebbe «cosa ridicola che in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città, nessuna provincia sovrasta all’altra, si voglia introdurre questa tirannia nella lingua».4 In comune con Manzoni egli lamenta la mancanza di un’unità nazionale e di una capitale che possa aver favorito la standardizzazione della lingua ma, a differenza dello scrittore lombardo, non accetta come soluzione linguistica unificante quella di «risciacquar i panni in Arno», scelta adottata da Manzoni a partire dal 1827. In qualche modo Leopardi anticipa il concetto di sistema, che è alla base del Cours de linguistique générale di De Saussure, quando affronta la dinamica che ogni poeta dovrebbe tener presente tra adozione di una lingua “comune e nazionale” e riutilizzo di forme antiche che favoriscono nel lettore l’accesso all’evocazione del passato e la proiezione nell’immaginario.5
Nell’ottica di Leopardi, tutto ciò che è umano ha a che fare in qualche modo con la lingua: letteratura, politica, storia nazionale, sistema delle idee.6 Per il poeta recanatese la lingua andrebbe a incidere anche sulla memoria.
«La poca memoria de’ bambini e de’ fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de’ primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne’ bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne’ fanciulli?»7
La parola costituisce l’uomo, ma costituisce l’uomo perché essa crea il mondo nel quale vive e opera l’uomo. La parola, intesa come capacità di dare un nome alle cose, di verbalizzare le esperienze presenti, di ricordare quelle passate, di progettarne altre e, infine, di fare una serie di operazioni con esse, come operazioni di selezione e di combinazione di parole, creando nuovi significati. Privo della parola, l’uomo non avrebbe mai potuto intendere e volere una qualunque cosa, avere memoria e ricordare eventi passati, programmare la sua esistenza e progettare il futuro. Non si sarebbe mai neanche posto tutti questi interrogativi.8
Leopardi ha speso “la favola della vita” a ragionare sulla natura, sull’uomo, sulle letterature e sulle lingue, e lo ha fatto nel solo modo possibile: attraverso le parole.
Il panorama della situazione linguistica e culturale dell’Italia della Restaurazione è caratterizzato dal problema della costruzione di una lingua nazionale moderna che non aveva ancora trovato una soluzione soddisfacente, e dalla scissione tra lingua parlata e scritta. In questo contesto egli assume una posizione originale, dettata dal suo personale modo di considerare le lingue, alternativa sia al purismo che ai suoi detrattori. Mancando letteratura, la lingua è rimasta quella illustre del tempo antico, che non è idonea a esprimere nuove idee. Per uscire da questa situazione, Leopardi propone in un certo senso di rimettere in cammino la lingua italiana, di ridarle nuova linfa culturale e vigore, tenendo conto però della sua ricca, variegata e inestimabile storia.9
Un letterato di primo Ottocento aveva a disposizione una quantità di varianti fonologiche e morfologiche davvero notevole. Se questa spiccata varietà di forme – nei secoli precedenti era ancora maggiore, mentre oggi è ridottissima – per uno scrittore come Manzoni, sensibile alla funzione sociale del linguaggio, poteva persino rappresentare un ostacolo al processo di unificazione linguistica ancora di là da venire, era invece linfa vitale per alimentare l’impegno creativo di un autore come Leopardi, costantemente alla ricerca di forme di lingua e di stile sempre diverse, che potessero esprimere tutta la varietà del suo “pensiero in movimento”.10
In realtà, sottolinea Ricci, non sempre la scelta tra un’opzione e l’altra era in effetti libera: spesso era invece condizionata da fattori legati al tipo di testo che si stava scrivendo oppure alle caratteristiche di un certo genere di scrittura. Però è innegabile che avere a disposizione due o più alternative per uno stesso referente moltiplica le soluzioni in relazione sia alla variatio lessicale sia alla metrica.
L’aggettivo solitario viene utilizzato da Leopardi in due titoli (La vita solitaria e Il passero solitario) e in altre dieci occasioni. Accanto a esso, il poeta si serve anche dei più lirici ermo, romito e solingo. La scelta è dipesa, di volta in volta, dalla varia modulazione sia delle implicazioni metriche (si va dalle due sillabe di ermo che, iniziando in vocale, può legarsi in sinalefe anche con la parola precedente, alle quattro di solitario) sia delle distribuzioni interne al singolo canto o al libro intero.
Quando il poeta, per esprimere la stessa cosa, ha a disposizione due o più risorse lessicali, la sua opzione sarà dettata dal livello stilistico del componimento. Nei Canti incontriamo otto volte un verbo di uso comune come prendere, mentre solo due volte il più familiare pigliare e sempre in contesti stilisticamente umili: nella prima lassa della Quiete (caratterizzata da “modestia di registro”).11 Anche quando Leopardi ricorre a un accostamento non inedito, la pregnanza e la “leopardianità” dell’attributo rendono quell’accostamento nuovo e originale. È stato preso in esame il celeberrimo “lenta ginestra” dell’attacco dell’ultima strofa della canzone: «E tu, lenta ginestra, / Che di selve odorate / Queste campagne dispogliate adorni».12 La ginestra leopardiana, stante la condizione di pieghevolezza, diventa un’allegoria di chi non si oppone alla sua sorte con vano orgoglio o con vili lamenti, ma accetta la legge della natura e la propria morte con consapevolezza e dignità.13
La ricerca di un adeguato strumento linguistico è collegata sempre alla scelta dei contenuti da esprimere, ai sistemi di idee che le parole rappresentano e fanno circolare. La posizione di Leopardi è piuttosto isolata nel dibattito del tempo dove, dopo l’esperienza riformatrice, la discussione sulla questione della lingua tendeva a ripresentarsi solo come ricerca linguistica fine a sé stessa, sterile e inutile, o come espressione retorica priva dello spessore culturale e molto distante, quindi, dai modelli di eloquenza che erano operanti a metà Settecento. Il dissenso che egli manifesta nei confronti della cultura del tempo è molto forte: «Tutte le opere letterarie italiane d’oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita».14 La mancanza di una lingua e di una società moderna in Italia dipende dalla mancanza di una nazione, dalla sua nullità politica e militare, dal fatto che è priva di una capitale, una letteratura, un teatro, una conversazione sociale, cioè di quelle istituzioni che assicurano una uniformità di opinioni e di costumi che è poi alla base della coesione sociale.15
La diagnosi di Leopardi della società italiana e delle forze politiche e culturali che governano l’opinione pubblica ricalca quel nesso tra letteratura e lingua, collegato a sua volta a quello, altrettanto centrale, tra nazione e lingua, e che si risolve nella reciproca determinazione fra condizioni linguistiche, condizioni politiche e forme della produzione culturale, il cui intreccio può ricordare l’impostazione che Gramsci avrebbe considerato molto tempo dopo la questione della lingua.16 Sul fatto che Leopardi cercasse consapevolmente e tenacemente la propria lingua poetica non c’è dubbio. La ricerca di lingua e di stile è orgogliosamente dichiarata nelle Annotazioni alle dieci canzoni. Le fittissime pagine delle annotazioni linguistiche sono un duello col Vocabolario della Crusca e coi reali o supposti critici puristi, volto a denunciare le lacune di quel dizionario e a integrarle coi testi canonici, a dimostrare la propria ortodossia alla tradizione sancita da quel dizionario stesso e insieme ad affermare la propria libertà e creatività.17 I grandi poeti sono anche grandi architetti.18 Leopardi architetto si vede sia nelle microstrutture (disposizione delle parole o vari fenomeni microsintattici) sia nelle macrostrutture (dalla creazione della singola strofa o del singolo periodo alla composizione dell’intero testo). E allora, come evidenzia Ricci, al pari di una partitura musicale, le poesie e le prose leopardiane si configurano in una poliedrica varietà di soluzioni, dove costanti e varianti vengono intessute e dosate per inseguire, di volta in volta, la lingua e lo stile che Leopardi riteneva più adatti alle cose da dire.
Irma Loredana Galgano
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Alessio Ricci, La lingua di Leopardi, Società Editrice Il Mulino, Bologna, 2024.
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1G. Leopardi, Zibaldone.
2G. Leopardi, Zibaldone.
3A. Luzi, Le mythe repensé dans l’œuvre de Giacomo Leopardi, Presses universitaires de Provence, Aix-en-Provence, 2016.
4G. Leopardi, Zibaldone.
5A. Luzi, op.cit.
6F. D’Intino, L. Maccioni, Leopardi: guida allo Zibaldone, Carocci, Roma, 2016.
7G. Leopardi, Zibaldone.
8R. Pititto, Processi linguistici e processi cognitivi. Verso una teoria della mente, Unina – Università degli Studi di Napoli, 2004.
9A. Prato, Il rapporto tra linguaggio e società nella filosofia di Leopardi, in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti, Bologna, 2018.
10S. Solmi, La vita e il pensiero di leopardi, in G. Pacchiano (a cura di), Studi leopardiani, Adelphi, Milano, 1987.
11P.V. Mengaldo, Leopardi antiromantico. E altri saggi sui Canti, Il Mulino, Bologna, 2012.
12G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto.
13P.V. Mengaldo, L’epistolario di Nievo: un’analisi linguistica, Il Mulino, Bologna, 2006.
14G. Leopardi, Zibaldone.
15A. Prato, op.cit.
16S. Gensini, Leopardi «filosofo linguista italiano», XLIX-L.
17G. Nencioni, La lingua del leopardi lirico, in Id., La lingua dei “Malavoglia” e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Morano, Napoli, 1988.
18P.V. Mengaldo, Leopardi antiromantico, op.cit.