Gli dei immortali ci invidiano Joanna. Ci invidiano perché ogni istante vissuto su questa terra è come fosse l’ultimo, così che Tu, come sei adesso, non sarai più.
In questa perpetua condanna a morte si sciupa la tua Bellezza terrena, e questo disfacimento ti rende meravigliosa.
Ogni volta che abbiamo camminato sotto la pioggia per la città erano attimi irripetibili. Non un giorno identico all’altro: siamo morti lentamente, senza accorgercene.
Cos’è il dolore? È questo.
Le città dove siamo stati sono di già irrimediabilmente deturpate.
Ricordi? Ricorda!
Alla fine del nostro amore camminavamo per le strade di Auderghem in cerca di un piccolo letto per la tua nuova vita a Bruxelles. Allora non sapevamo. Ci tenevamo per mano. Ogni bacio era un passo verso la fine. Ogni bacio era una promessa di morte.
Volevi l’immortalità? Hai fallito!
L’estate scorsa sono venuto da te. Sembrava impossibile. Non ci vedevamo da un anno, ma ci eravamo sentiti al telefono tutti i fine settimana. Durante quelle telefonate tu mi dicevi che la tua vita era impossibile. Io facevo lo stesso. Avevamo imparato a farlo con grazia.
Siamo saliti sulla linea della metropolitana Herrmann Debroux. Agli altoparlanti sempre la stessa voce metallica annunciava la fermata De Brouckere. Come vorrei sentirla ora!
Abbiamo cambiato linea, e mi hai portato alla tua nuova casa. Vivevi con altre quattro ragazze, venivano da paesi lontani. Un’altra vita da quando, anni prima, ci eravamo conosciuti a Torino.
La sera in cui arrivai sembrava non fosse cambiato nulla. Mi sbagliavo. Tu eri una donna sicura, lavoravi per un dipartimento della Commissione Europea. Io sentivo tutto, sentivo le tue cosce pulsare come non le avevo mai sentite prima, e ti toccavo come un affamato strappa e morde un pezzo di pane.
Alla mattina, appena sveglio, ti vidi in tutta la tua bellezza. Fu in quella finzione che le nostre vite si ritrovarono ancora una volta.
«Non sai quanto ti amo», mi dicesti. Mi baciasti, ti vestisti e te ne andasti in cucina a preparare la colazione. Io rimasi sdraiato a fissare i raggi di sole che entravano dalla finestra, inondando le lenzuola. Era una scena che avevo di già vissuto con te innumerevoli volte. Ci restavano ancora un paio di giorni. Bruciavo di rabbia: come potevamo separarci ancora?
Se fossimo stati due divinità non l’avremmo fatto. Ma eravamo solo carne morente, schiacciati da necessità incomprensibili.
Nei giorni del nostro amore, credevamo che tutto sarebbe stato possibile, che io avrei protetto te e tu avresti protetto me, e per questo il mondo si sarebbe piegato alla nostra volontà. Eravamo dei privilegiati: vivevamo in Europa, in due avevamo quattro cittadinanze. Italiana, francese, greca e albanese, ma fu del tutto irrilevante: non abbiamo mai trovato una casa in cui abitare. Non avevamo radici. Ma credevamo nel destino. Fu questo il nostro più grande errore.
In una mattina di luglio salimmo sul treno per Anversa. Fu un viaggio nell’inconscio. Stravolti dalle emozioni, ci scattammo alcuni selfie abbracciati, come avevamo sempre fatto. Fermata dopo fermata, le case fluttuavano fuori dal finestrino del treno. Avevano i tetti spioventi, a punta, come le case del Nord. Noi guardavamo trasognati.
Quando arrivammo ad Anversa il nostro animo era mutato. Contemplammo in silenzio l’immensa stazione. L’aveva fatta costruire il re del Belgio Leopoldo II agli inizi del ’900. La sua cupola si stagliava per decine di metri d’altezza sopra di noi. Quel ricordo si è impresso in me come un marchio indelebile.
Pendemmo un caffè poi uscimmo in strada. Un nero leggeva la bibbia ad alta voce, pregava un qualche dio, anche per noi. Quello era tutto il suo mondo, la sua inderogabile unicità.
«Aggrappati al mio braccio», ti dissi. Ci perdemmo per le stradine del centro. Visitammo chiese, piazze, statue. Cercammo un posto dove pranzare, girammo a caso. Ci fermammo a leggere i menù fuori dai ristoranti, senza capire nulla. Tu mi parlavi del tuo lavoro, dei tuoi colleghi, delle tue nuove amiche. Era una vita in cui io non ero presente. Ero stato per quasi un anno in un vecchio monastero assieme ad altri per curare non solo i miei vizi, ma la sensazione di aver perso qualcosa.
Non era una perdita materiale, ma una condizione esistenziale. Non sono in grado di dirti se tutto questo abbia a che fare con il periodo storico, so solo che avevo visto questa condizione in ogni persona conosciuta nella mia breve vita. In ogni posto. In ogni luogo. Ognuno aveva la propria battaglia. Ognuno affrontava il proprio senso di perdita come poteva.
Finito di pranzare andammo verso il porto. Entrammo in un museo, un palazzo moderno dal cui tetto spazzato dal vento delle Fiandre potemmo scorgere l’immensa distesa di gru e container di uno dei più grandi porti fluviali d’Europa. In quel piccolo frammento di infinito, ci eravamo divertiti come non succedeva da tempo. Così ci abbracciammo forte e ce ne andammo lungo le rive del fiume Schelda. Un forte vento alzava il tuo vestito, e i miei capelli ondeggiavano verso il cielo. Ci sedemmo senza dire nulla. Io non avevo niente da dire, anche se tu aspettavi che dicessi qualcosa, che ti parlassi della mia vita, dei miei progetti, di possibili futuri. Avrei voluto dirti per l’ennesima volta che si sarebbe sistemato tutto, che presto avrei trovato un lavoro vero, avrei scritto un libro e fatto un sacco di soldi, ma quella volta non riuscii a mentirti. Così restammo in silenzio, e quel silenzio divenne insostenibile, e noi lasciammo le rive del fiume ad altri innamorati.
Fabio Pante