Come quando fuori piove. A volte capita di perdere il filo, anche se sei Ambra Angiolini e a soli 16 anni ti ritrovi a condurre un programma televisivo ideato e diretto da quel genio di Gianni Boncompagni col prezioso contributo di Irene Ghergo. Un programma che nel giro di qualche mese solleva un polverone e diventa un cult della teen generation anni Novanta. Migliaia di ragazzine strillano davanti agli studi super affollati del Centro palatino di Roma identificandosi in un sogno, sperano in un saluto, una dedica, un’occhiata, una smorfia, un cenno, un sorriso. E non appena finiscono di scorrere i titoli di coda, si precipitano a comprare le figurine, le tute, le t-shirt per rifarsi il look a sua immagine e somiglianza. Un “copia-incolla” per essere come lei, la conduttrice di Non è la Rai.
Era il lontano 1993 e il “fenomeno Ambra” riempiva le colonne di giornali e riviste. Un successo enorme, ma anche una valanga di critiche. Perché lei, la ragazzina spigliata e sarcastica cresciuta nel quartiere romano di Palmarola, che all’inizio con la dizione era un disastro e senza pensarci troppo non esitava a pronunciare con marcata inflessione romanesca “borza” anziché “borsa”, telecomandata a distanza dal suo regista, padre televisivo e mèntore grazie al famigerato auricolare era così, divideva l’opinione pubblica tra chi la amava incondizionatamente e chi la odiava e basta, detestandola per quel suo scimmiottare sul palco, per quell’irriverenza smorfiosa che in realtà nascondeva solo tanta fragilità e una spensierata voglia di divertirsi. Ma come ha vissuto davvero Ambra in quegli anni, quando si spegnevano i riflettori su quel lolita show che sollevò presto l’indignazione delle più accanite femministe che avrebbero preteso un maggior impegno intellettuale da adolescenti scappate da scuola che, vestite tutte allo stesso modo e senza troppo spirito critico, ballavano e cantavano davanti alle telecamere?
Tra palco e realtà c’è la vitae il peso enorme di portarsi addosso un personaggio troppo ingombrante. Con un effetto boomerang che non tarda ad arrivare. Eppure nessuno si era mai accorto di niente. Di quel vuoto nell’anima, dei sorrisi esibiti, della felicità recitata, dell’allegria e dello humor spesso ostentati ma che in realtà erano solo uno schermo, una corazza, una maschera per non scoprire le ferite e nascondere bene quel segreto. Un segreto che per anni ha accompagnato l’insopportabile e impertinente conduttrice di “Non è la Rai” e poi anche di altri programmi tv e radio e la sua anima vuota, “ipersensibile e furiosa”. Quel segreto che diventa un modo tragico di affermare il proprio esserci, la propria presenza nel mondo, nonostante quel perenne senso di colpa e inadeguatezza che a tratti riaffiora invadente per non essere forse la figlia ideale, la ragazza perfetta e non riuscire a togliersi di dosso quell’alone che ne restituiva un’immagine sfuggente e sfocata.
Un’etichetta che la insegue anche nel secondo tempo della sua vita, quello da attrice affermata. Un salto nel mondo del cinema che senza troppe storie mette d’accordo pubblico e critica, consacrato da “Saturno contro” di Ferzan Özpetek. E nel 2007 arrivano pure i premi, importanti riconoscimenti: il David di Donatello, il Nastro d’argento come migliore attrice non protagonista, il Globo d’oro e perfino il Ciak d’oro come rivelazione dell’anno. Sembrano ormai lontani i tempi da dilettante talentuosa del balletto sul rap melodico di “T’appartengo, io ci tengo, se prometti poi mantengo”.
Eppure non è stato proprio facile. Prima del 2008 quasi nessuno conosceva la vera storia di Ambra Angiolini e il suo spiacevole incontro con la bulimia. Una storia raccontata a tutti in un libro. Infame edito da Rizzoli è un racconto esistenziale vivo e a tratti maleducato, in perfetto “stile Ambra”, ma soprattutto ironico, intenso e vero. La narrazione di un disturbo alimentare che è una vera e propria malattia, ma anche il racconto di tutto ciò che ruotava intorno a questo disagio: la vita artistica, privata, il rapporto sfuggente coi fidanzati di turno, le feste con gli amici e l’imbarazzo di non essere esattamente come tutti immaginavano. “Mentre ho addosso lo sguardo incuriosito di molti, penso che vomiterò presto le loro finte attenzioni. […] Io non esisto, non sono quello che vedono. Come possono non averlo capito?”.
Troppo difficile da spiegare a chi non sapeva per esempio il motivo per cui Ambra si sedeva sempre vicino al bagno del ristorante, lasciava a lungo scorrere l’acqua del lavandino, puliva sempre tutto in modo ossessivo per non lasciare traccia di Elettra, la parte malata di sé, capace di essere felice soltanto per 50 secondi, dopo aver infilato due o tre dita in gola. E poi quel divorante senso di colpa. Un mostro con cui Ambra ha convissuto a lungo. Fino alla magica scoperta di essere incinta della prima figlia Iolanda. A partire da quel momento qualcosa dentro di lei cambia. Quella pancia “terremotata, incidentata, disperata, sempre vuota la sta arredando qualcuno che ancora non conosco. Lavora sugli interni, io mi fido e basta. Sistema le cose, ha preso spazio, ha illuminato il buio”. Adesso Elettra è morta, ormai non esiste. E a ucciderla è stata proprio lei, Ambra. Perché c’è sempre qualche “InFame” da eliminare dalla propria esistenza.
Elena Orlando