Esce oggi in libreria questo Teseo, testo di André Gide proposto da Mattioli 1885 nella traduzione di Livio e Bruno Crescenzi. Per presentarlo, abbiamo fatto ricorso alle parole della prefazione firmata da Cristiano Grottanelli.
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Ancor più irresistibile è la tentazione di leggere Gide in filigrana nelle avventure di Teseo, e non tanto in quelle eroiche (nelle quali semmai si vedrebbe volentieri un Montherlant), quanto in quelle che, per mancanza di un termine più corretto, si dovranno chiamare ‘sentimentali’. E qui il paradosso è curioso: Teseo afferma che, pur essendo greco, non ama i ragazzi. Strana confessione autobiografica! Subito corretta però da una bella ambiguità, che consiste nel fingersi pederasta per rapire la giovanissima Fedra simulando il ratto – più accettabile alla corte omoerotica di Creta – del somigliantissimo fratellino di lei, Glauco. Si tratta quindi del rovesciamento non ingenuo di quella pratica di mascheramento che ha nutrito tanta letteratura, non solo proustiana. Più ancora che in questo scambio semplice, il gioco astuto di queste pagine sapientemente scorrevoli sta in un altro scambio, che è scambio duplice.
È per ingannare Arianna che Teseo traveste Fedra mutandola in Glauco; è Arianna, la bella ma noiosa Arianna, la vera vittima di Teseo. E proprio Arianna, la donna appiccicosa, utile ma insopportabile, ci fornisce la cifra per leggere bene le avventure del protagonista donnaiolo misogino, che vuol mettere il mare fra sé e l’amante, ma la compiange – e aiuta, danzando, a divinizzarla. Come c’informa la dedica, e come conferma il Journal, Thésée fu, se non scritto, completato ad Algeri, nella casa accogliente della famiglia Heurgon. Jacques Heurgon, nato a Parigi nel 1903, era studioso di storia romana e di antichità etrusche, e aveva a lungo insegnato nell’Università di Algeri, ove era stato suo collega il grecista Louis Gernet, maestro di Jean-Pierre Vernant.
Nel 1944, dopo aver combattuto con la Terza Divisione di Fanteria Algerina contro i tedeschi da Pozzuoli a Cassino a Roma a Siena, Heurgon si apprestava a diventare attaché culturale all’Ambasciata di Francia a Roma. Spirito non accademico, Heurgon fu capace di coltivare amicizie intelligenti: già nel 1924 aveva conosciuto l’eccentrico Lytton Strachey, di cui aveva tradotto Elisabeth and Essex e Eminent Victorians; nell’ambiente di Algeri si era formato il suo sodalizio con Albert Camus, che gli dedicò Noces à Tipasa. Nella biblioteca di Heurgon, Gide ritrovava4 Leopardi, Dante, Stendhal e, forse non per caso, le opere di quella Virginia Woolf già amica di Strachey. Un mese e un giorno più tardi, su una terrazza di Algeri, passeggiava dopo la cena con il generale De Gaulle, parlando a lungo di Maurois, che in quel momento stava dalla parte sbagliata ma che, assicurava Gide, si sarebbe presto ravveduto. Il Journal non lo dice, ma il Generale era ad Algeri perché proprio in quel mese di giugno 1943 il londinese ‘Comitato nazionale dei francesi liberi’ si fondeva con l’amministrazione nordafricana del ‘Comitato francese di Liberazione nazionale’, coordinando la partecipazione alla guerra antinazista. Paradossalmente, nonostante il clima di guerra, nel 1943 e nel 1944 il Maghreb di Gide è luogo di esilio e di meditazione, ben diverso da quello del lontano 1895, terra di esotiche e un po’ losche avventure vissute con Oscar Wilde e con Alfred Douglas. Il confronto non può non imporsi; e del confronto si è certo nutrito Thésée, autobiografia di un saggio ex avventuriero.
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È il gusto di Gide a dettare il tono; e il tono fa questo racconto: leggero, rapido, grazioso, acuto. Al gusto di Gide si deve se il peculiare tipo di attualizzazione, che informa di sé l’operina, è attualizzazione ironica, partecipazione insieme tenera e distante a un nucleo vero del mito che con abili tocchi viene riplasmato. Il Novecento ha tanti modi di attualizzare l’antico. Se si tace dei più grevi (alcuni dei quali finirono col costare sangue), ne restano pur sempre parecchi. C’è il modo, puramente affabulatorio, che è invalso negli anni in alcuni settori prelibati dell’editoria. Di questo modo è antidoto la noia stessa che i suoi prodotti ispirano. C’è stato il modo altisonante del tauromaco Montherlant: di Montherlant dice cose definitive («il a bon se camper en héros: à travers sa pourpre, je reconnais sans cesse un froussard qui se garde à carreaux») il Journal di Gide.
La sua magniloquenza tradisce «un indefinibile fondo di volgarità» (ibidem). Dell’attualizzazione ironica (alla quale rimase sempre fedele da Paludes a questo Théseée), Gide non è forse il solo rappresentante. Gli si potrà accostare, per esempio, il Robert Graves di I, Claudius e di Claudius the God – ma Graves, meravigliosamente incoerente, seppe produrre anche seriosi pasticci – ironici solo inconsapevolmente – come The Greek Myths e quella grottesca White Goddess che l’editoria italiana delle chicche ci ripresenta oggi tutta compunta. Forse Gide è il solo moderno che alla propria rilettura ironica del classico sia saputo restare fedele fino in fondo.
Cristiano Grottanelli
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È una storia molto complicata, questa. Innanzi tutto occorre dire che l’isola di Creta era potente. Vi regnava Minosse, che considerava l’Attica responsabile della morte di suo figlio Androgeo, e a mo’ di rappresaglia da noi aveva preteso un tributo annuale: sette giovani ragazzi e sette giovani fanciulle dovevano essergli consegnati, si diceva, per soddisfare gli appetiti del Minotauro, il figlio mostruoso che Pasife, la sposa di Minosse, aveva generato in seguito a un infame accoppiamento con un toro. Le vittime erano designate dalla sorte.
Ora, quell’anno, ero appena rientrato in Grecia. Ancorché la sorte mi avesse risparmiato (essa risparmia volentieri i prìncipi) chiesi con fermezza di far parte del gruppo, nonostante le resistenze del re, mio padre. Non so che farmene dei privilegi e pretendo di distinguermi dalla massa solo per il mio valore. D’altronde, il mio disegno era di trionfare sul Minotauro, liberando così di colpo la Grecia da quell’orribile tributo. Del resto, ero molto curioso di conoscere Creta, da cui ci giungevano in Attica oggetti lussuosi, belli e bizzarri. Partii, dunque, essendomi unito agli altri tredici, fra cui era il mio amico Piritoo.
Un mattino di marzo arrivammo nella baia di Amniso, piccolo villaggio che è il porto della vicina Cnosso capitale dell’isola dove risiede Minosse che vi ha edificato il suo palazzo. Saremmo dovuti giungere la sera del giorno prima, ma una tempesta aveva ritardato il nostro arrivo. Appena sbarcati, fummo circondati da guardie armate che, impadronendosi della mia spada e di quella di Piritoo e assicurandosi pure che non portassimo altre armi, ci introdussero alla presenza del re, venutoci incontro da Cnosso con la sua corte. Erano affluiti molti popolani che si accalcavano intorno a noi per osservarci. Tutti gli uomini erano a torso nudo. Minosse soltanto, seduto sotto un baldacchino, portava una lunga veste fatta di un solo pezzo di tessuto rosso scuro che, dalle spalle, gli cadeva fino alle caviglie con pieghe maestose. Sul petto, ampio quanto quello di Zeus, tre giri di collane.
Molti Cretesi ne portavano di simili, sebbene di fattura più grossolana, al contrario di quelle di Minosse fatte di gemme e di placche d’oro con incisi fiori di giglio. Seduto su un trono dominato dall’ascia bipenne, nella mano destra, scostata in avanti rispetto al corpo, impugnava uno scettro d’oro alto quanto lui e nell’altra un fiore trilobato anch’esso d’oro, simile, ma più grande, a quelli delle sue collane. Al di sopra della corona d’oro si elevava un enorme pennacchio di piume di pavone, di struzzo e di alcione. Minosse ci osservò a lungo, dopo averci augurato il benvenuto nella sua isola con un sorriso che in realtà poteva essere ironico, in quanto noi eravamo dei condannati. Ai suoi lati, in piedi, stavano la regina e le due principesse, sue figlie.