Non perde tempo, Andrea Manzi. Fin dalle battute iniziali del suo primo romanzo ci rivela l’intimità più profonda del protagonista, il giornalista Carlo. Ce lo descrive durante un viaggio in treno, dentro uno scompartimento che è una piccola metafora della società: rapporti formali occhiate guardinghe, dialoghi frettolosi. In questa sostanziale solitudine, dentro la notte simulata dei tunnel, Carlo cade preda del suo malessere cronico: “sentimenti di irrealtà”, le cose si trasfigurano in esseri animati e lo minacciano, il cuore batte all’impazzata portandolo sulla soglia dell’infarto. Carlo vive “un rapporto clandestino con la vita”: è nevrotico, iperteso, ipocondriaco; “sensibile”, che diventa “fragile”, che diventa “incompreso”, che diventa a turno, e a seconda delle circostanze, “misantropo”, “misogino”, “agitato”, “folle”. Cerca di darsi un tono, di mascherare la sua vita di contrabbando senza riuscirci. È infelice, dopo tutto; chiama la sua infelicità “malinconia”. In stazione lo aspetta la compagna Sandra, ma il treno è in ritardo e salta l’appuntamento fissatogli con una soffiata da una misteriosa “gola profonda”, per recuperare qualcosa di suo e scampare a un grave scandalo che sta per venire a galla.
In un cantiere di Villa, un paesino nei pressi della città dove Carlo vive e lavora, è stato ritrovato un cadavere sepolto trent’anni prima. Si sospetta che sia quello di Mariella, una ragazza scomparsa nel 1980 e per tutti emigrata in America: vicino c’è una pistola con le impronte digitali di Carlo. Un sogno angosciante e surreale prelude a una telefonata notturna alla ex moglie Angela (i due non hanno ancora formalmente divorziato), nella quale Carlo, disperato, confessa di aver tentato il suicidio molti anni prima e, ravvedutosi all’ultimo momento, di aver gettato la pistola pronta a sparare nel cantiere del ritrovamento. Da un giorno all’altro viene coinvolto in un’indagine per omicidio. All’epoca dei fatti frequentava Mariella e la presenza della sua pistola sembra quasi la firma del delitto. Nel turbine di eventi – esterni e interiori alla fragile psiche di Carlo – si innestano una serie di personaggi secondari ma abilmente delineati: il magistrato Castiello, che, pur indagandolo, cerca di preservare l’onorabilità di Carlo in nome di un’antica amicizia nutrita dalla stima reciproca; lo psicanalista Ciro Dalto, che da anni ha in cura Carlo e cerca di far riemergere i suoi ricordi relativi all’epoca dei fatti; don Gabriele, professore di Carlo al liceo e forse custode di terribili segreti che coinvolgono Mariella e riguardano il suo predecessore don Raffaele, da poco morto. E poi le donne: Mariella, lontana come un sogno, di cui gli restano impresse nella memoria poche parole – “in canonica abita il diavolo” – pronunciate durante il loro ultimo incontro; l’ex moglie Angela, avvocato, cui Carlo è ancora legato da un rapporto irrisolto e soprattutto da un figlio; la compagna Sandra, collega al giornale,che da due anni vive col protagonista una relazione basata su una forte attrazione erotica e su una “rispondenza di anime”. Circa a metà del romanzo, nel pieno dell’annaspamento di Carlo per cercare prove a sua discolpa, la scena si sposta a un anno dopo: il processo è stato archiviato, Carlo si ritrova prosciolto da ogni accusa e preda di una profonda depressione. Lutti freschi lo prostrano: la madre muore dopo una lunga malattia; Giulio Affinati, che nel periodo del processo lo aveva sostituito al giornale come responsabile degli Interni, si suicida in circostanze misteriose.
È l’inizio di un valzer di colpi di scena, che spiegano il proscioglimento di Carlo e insieme risucchiano nell’inchiesta il direttore del giornale, Camillo Giuliano, e Angela, legati da una morbosa relazione che coinvolge anche Affinati. Carlo prova a compiere, invano, la sua personale indagine alla ricerca della verità; avvocati di grido discolpano Angela e Camillo Giuliano, periti revocano in dubbio l’identificazione del cadavere con Mariella e tutto il quadro si offusca, lasciando la sensazione che le risultanze del processo non rispondano alla verità vera. “Vedi, nei processi magistrati e cronisti vanno in cerca della verità, che è poi sempre una caccia al colpevole, all’identità del reo. Le verità invece riguardano anche l’intimità delle persone, e quell’accertamento è molto più difficile. Comprendere quale sia il livello di libertà interiore di ciascuno, quante e quali cose si fanno per convinzione o per debolezza, per scelta o per imitazione, o per trascinamento”.
Con Giornalisti all’inferno, pubblicato da Europa Edizioni, Andrea Manzi – giornalista a sua volta, fondatore del quotidiano “La Città” di Salerno e già caporedattore del Mattino – scrive un romanzo originale: un thriller dalla prospettiva sghemba di un presunto, improbabile colpevole; un giallo in cui tutto progressivamente si complica invece di chiarirsi. In particolare, svolge una raffinata indagine psicologica centrata sul protagonista, che diventa l’emblema di un tipo umano e sociale, il perfetto simbolo di un’epoca segnata dalla precarietà, dall’insoddisfazione, da incerte direzioni e fragili appigli.
Dalla vicenda di Carlo emergono questioni fondamentali della nostra società: l’errore giudiziario (e più in generale il crinale scivoloso su cui si muove la giustizia), la gogna mediatica e i suoi drammatici risvolti, la responsabilità dell’informazione, lo scontro tra deontologia e arrivismo, e infine il conflitto sciasciano tra verità processuale e verità reale, o almeno logica. La scrittura di Manzi procede serrata e poi si allarga ad approfondimenti sul vissuto dei personaggi, a introspezioni o divagazioni ad uso dei lettori. Stupisce per la padronanza tecnica degli argomenti e significativamente approda, nel finale, a un disarmato approccio emotivo. È la lettera di Carlo al figlio, con cui il protagonista prova a recuperare l’essenza di quel rapporto e a ristabilire, in un atto di completo abbandono alla tenerezza, le priorità della sua vita. “Io soffro di un male profondo e invisibile, Lorenzo, che affronto da quando ero poco più grande di te, armandomi di pazienza e coraggio. La cura è fatta di parole. Parole che penso e parole che dico a chi è in grado di capirle (e da un po’ di tempo le dico anche a me stesso). Sono medicine che mi escono dalla bocca e mi rientrano nella testa, mentre altri dalla bocca ingurgitano farmaci che uccidono talvolta più delle malattie. È una cura semplice, la mia, che mi rende immune da mali assoluti e mi pacifica col male di vivere”. Finalmente Carlo sembra pronto ad andare incontro alla felicità: con le parole di Borges ricorda che è l’unica cosa priva di mistero, “perché si giustifica da sé”.