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Andrea Rustichelli. Senza biglietto. Viaggio nella carrozza 048

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Nella provvisorietà del presente, inizio dalla quasi fine, in quanto lieta.

Il momento della riacquisizione della libertà, il sollievo, la commozione.

A un passo dalla lettera di dimissioni dall’ospedale.

Eppure quel “fuori”, a me e a tutti gli altri nel reparto, deve apparire comunque come la porta luminosa da varcare, finalmente in direzione contraria. Rivestirsi, prendere la valigia e risalire la china di quel processo di spersonalizzazione: dove vieni identificato con il numero di letto, o con l’organo malato o con la terapia che assumi. Nuotare controcorrente, lasciarsi alle spalle quel mondo sospeso, tornare tra i vivi.

Andrea Rustichelli, giornalista Rai e volto noto del TG3, ha deciso di raccontare l’esperienza avuta con la malattia per antonomasia, il cancro, recidiva nel suo caso, che ha ospitato dentro il suo corpo in questi ultimi anni, come il peggiore degli inquilini possibili.

E con esso, ci parla, a cuore nudo, di tutto ciò che ruota intorno al male: il malessere, la disperazione, la paura, l’incertezza. E soprattutto del viaggio sofferto, legato alle cure.

Egli è stato un paziente 048, codice univoco che identifica il malato oncologico. Un marchio sulla pelle, che si spera essere delebile; al contempo denominazione di un percorso indelebile, effettuato da “portoghese”, senza biglietto e senza volontà, ma vitalmente obbligatorio.

Il risultato finale è un libro incredibilmente bello.

L’autore, in una manciata di pagine, ci regala un reportage molto lucido travestito da diario personale, sospeso tra cronaca e filosofia. Un resoconto soffice, delicato, in parte ironico, che racconta la drammaticità di una realtà dolorosa e complessa.

Andrea riesce ad astrarsi: si guarda dall’esterno al fine di avere una visione nitida della realtà altrui e del paesaggio intorno. E poi rientra nel suo “io”, nel ruolo di viaggiatore in mezzo ai viaggianti, per mettere in atto quei processi mentali risolutivi, dai quali trarre la forza necessaria al proseguimento del tragitto, essendo coinvolto in prima persona.

In un viavai di emozioni altalenanti, affronta tutti i tasti dolenti legati alla sanità pubblica, senza puntare l’indice verso le parti in causa, ma analizzando le situazioni a scopo migliorativo. Una denuncia delle mancanze, piuttosto che un processo alle colpe, nella coraggiosa condivisione di una fase della vita molto dura, dove ogni rappresentante di ciascun ruolo andrebbe educato diversamente.

Dal curante, alle strutture, passando per il paziente.

Il tempo in ospedale si dilata, c’è tanta opportunità di pensiero, di riflessione estrema.

Gli aghi nella mente sono tanti, al pari di quelli sulle braccia, desinenze degli infusori.

Rustichelli li materializza entrambi e ce ne rende partecipi.

Le difficoltà di dialogo con i medici, le angosce e le ingiustizie lavorative a causa della mancanza di tutele (prima, durante e dopo il calvario), il pensiero verso i meno abbienti e culturalmente meno preparati, che fanno fatica a curarsi come dovrebbero, il piccolo fardello di sentirsi uno dei fortunati (tra gli sfortunati).

Tutto è fonte di riflessione, la ricerca di un conforto che solo la conoscenza dona.

L’autore durante il racconto mostra la propria empatia razionale, utile, solo apparentemente distaccata. In realtà è il frutto di una notevole profondità di pensiero e di introspezione. Doti non certo comuni, che lo hanno aiutato a capire, a resistere.

Non mancano le descrizioni delle personalità dei “commilitoni”, compagni di avventura, ciascuno col proprio grado di sventura, il proprio fardello oncologico sulle spalle.

Chi campa, chi muore: tutti, a modo loro, cercano di assecondare l’istinto alla sopravvivenza e di debellare l’atavico senso di colpa, che affligge un malato di cancro. L’assurdo reato di ammalarsi.

E’ un luogo di limbo, di attesa. Come attendono gli “spiaggiati”, coloro che aspettano di poter fare la chemioterapia non prima di un ritorno dei valori ematici entro determinati limiti di fattibilità. L’attesa prima di un altro tuffo in mare aperto, per affrontare l’ennesima tempesta causata dal veleno che li cura, come zatteranti in balia delle onde.

Mirabile è la rappresentazione di quel rapporto di muta solidarietà, che solo tra chi percorre gli stessi sentieri del dolore può crearsi, anche per un solo giorno di convivenza.

Ma anche il pensiero rivolto alla pazienza e allo stravolgimento esistenziale dei familiari o comunque di chi assiste il malato: le vittime “non vittime” della malattia.

Andrea ha un pensiero universale, non dimenticando se stesso. E lo fa in un contesto dove conoscenza e speranza dovrebbero andare a braccetto e nel quale invece, entrambe, vengono compromesse a tal punto da diventare ossessioni, alle quali aggrapparsi.

Come giudicare un libro così? Pensavo di commuovermi dal primo rigo, come in una puntata di Grey’s Anatomy. Invece mi sono ritrovato con il mal di stomaco, la fronte corrugata e la mente proiettata in cento direzioni diverse, tesa a pormi domande.

Ad immedesimarmi, per quanto mi sia possibile e non auspicabile.

A come avrà fatto Andrea a raggiungere un tale livello di sincerità, verso se stesso, e di consapevolezza, verso ciò che stava affrontando.

Un’opera più utile delle lacrime da struggimento, che pure non ho mancato di versare. Dalla valenza sociale, in quanto aiuta a guardare in faccia una realtà nota, ma oscura, di cui si fa ancora fatica a parlare. Una realtà che il più delle volte ci porta vigliaccamente a voltarci dal lato opposto, quello del sole ad ogni costo, dove risiede la negazione della verità, quando questa è più buia della notte.

Un libro colto, saggio, di una schiettezza a tratti irriverente e quindi impudicamente vero, come lo è la storia che narra.

Ho una sola critica da muovere a Rustichelli: nelle righe di presentazione leggo scritto:

“Questo non è il racconto biografico della malattia dell’autore, racconto che probabilmente interesserebbe ben poco”.

No, caro Andrea. Il tuo raccontarti non è stato forse un modo per interessarti a tutti noi?

Potevi startene zitto, vivere la tua malattia e festeggiare la tua guarigione, in silenzio.

Invece hai voluto farci questo dono. Di questo si tratta: un dono.

Per quale motivo noi ora non dovremmo interessarci a te? Io mi interesso, eccome.

E sono contento che tu sia vivo e che stia bene.

E grazie di tutto.

Paolo Raimondi

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