L’autunno ha le scarpe bagnate sulla punta, le dita delle mani che odorano di colla. Se apre la bocca parla con la voce di tutti i bambini che sono nati nel mio anno, e un paio tartagliano ancora. Le orecchie dell’autunno sono foglie a sventola che si staccano dai rami mentre nel suo cielo Venere brilla come un occhio.
Di notte lungo le strade dell’autunno nascono le amicizie. Succede quando si spengono le luci nelle case, quando i lampioni ascoltano e le panchine aspettano. Mia madre diceva che il lago d’autunno diventa sincero e che i pesci si nascondono nel fondo più fondo perché non hanno voglia di farsi vedere mentre si occupano dei fatti loro.
Un mio compagno di classe aveva il papà che era diventato un luccio e da allora non ha mai più guardato il cielo per paura di perdere la vista. Di notte però il suo dorso potente cercava la luce della luna fino a quando trovò il sentiero sicuro per diventare una delle tante storie che si raccontano su ciò che il fondo del lago nasconde.
L’autunno canta una canzone dei vecchi tempi, degli anni in cui è nata mia nonna. Quando la sentiva le veniva voglia di bere un caffè e faceva venire la stessa voglia a tutti quelli del condominio dove abitava perché apriva la porta del suo appartamento. Diceva che i profumi devono essere liberi di entrare nel naso di tutti. Quei profumi che in autunno sono colorati e non ancora saporiti come quelli d’inverno.
I sapori d’inverno fanno battere i denti per il freddo. Mentre gli uomini pronosticano il tempo a venire le mamme riparano i buchi nelle calze dei figli, e se canticchiano è solo per sentire una voce.
Quando il vento soffia il mondo diventa piccolo, nei boschi si aggirano solo foglie curiose, sui rami caduti scricchiolano passi senza piedi, le nuvole veloci dettano un alfabeto di poche lettere, quelle che il buio precoce ci permette di conoscere. Il silenzio è d’obbligo perché a volte un campanaro annegato torna in superficie per gridare che si sta meglio sott’acqua che sotto terra.
Mio padre diceva di avere visto una nave spagnola affondare dopo aver incocciato contro una montagna di ghiaccio vagante, il comandante in prua con una candela in mano che mandò bagliori fino a che toccò il fondo. Non ci ho mai creduto fino a che non la vidi anch’io coi miei occhi. Fu l’anno in cui la neve riuscì a ricoprire anche il lago e Babbo Natale tracciò un sentiero che unì le due sponde. Poi trovò rifugio in un’osteria del mio paese e si dimenticò di quello che doveva fare. Quando smise di nevicare, dai pupazzi di neve saltarono fuori
A primavera nascono bambini già pronti per giocare il primo torneo di calcio all’oratorio. Hanno la testa verde, i piedi nudi, si chiamano tra loro senza parlare. Nella tasca dei pantaloni, dentro un portafoglio di plastica con raffigurati Topolino e Paperino, hanno la foto della prima morosa che di lì a pochi anni conosceranno.
Mia madre diceva che il primo amore non si scorda mai. Per non rischiare di dimenticarlo mio padre ha sposato il primo e ultimo. Lui mi ha insegnato a fare la pipì nel lago senza offesa, a rispettare i marciapiedi sconnessi, il silenzio dell’erba che rinasce. Quando stavo vicino a lui sentivo la voce di marzo, come una mano che accarezzava nelle scene di certi film.
Quelle breve di primavera erano golose di pasta al forno, invitavano alle bugie, anche i vocabolari sembravano assomigliare a quegli alberghi che dopo la chiusura invernale aprivano di nuovo porte e finestre. Ne uscivano i clienti rimasti chiusi dentro con i loro sigari ancora accesi. Uno sguardo al lago e via sul motoscafo con le loro schiene giù umide di sudore e una fitta peluria bionda. Motoscafi che andavano a inchiostro e lasciavano dietro sé una lunga
scia di pagine bianche.
Mia madre diceva che un giorno o l’altro avrebbe provato a cucinare i ciottoli delle rive, tanto avevamo stomaci in grado di digerire qualunque cosa. Quei sassi appena riscaldati dal primo sole.
L’estate è un terrazzino con un bambino che gioca, un uomo in canottiera, una donna che chiede musica. L’estate ha un occhio solo, le gambe corte, braghette colorate per fare il bagno, con un elastico che tira un po’, stringe alle cosce. Scalda gli asfalti delle strade e talvolta si immerge in silenzi tali da far sembrare che il mondo sia spopolato. Ma è solo uno scherzo del suo unico occhio. Infatti basta che una finestra si apra, che da una stanza esca la voce di un cantante e tutto torna come prima.
Sono canzoni che parlano solo d’amore, chi non ce l’ha le canta e gli uomini in canottiera ridono. Sui calendari l’estate si addormenta insieme con i bambini che sono nati nei suoi giorni. La ninna nanna nasce sulle rive, tra i sassi dove i piccoli pesci non sanno ancora che diventeranno grandi.
D’estate c’è chi preferisce un bel gelato chi invece un piatto di peperonata. Intanto il fruscio delle foglie mosse dall’aria consuma il tempo dell’attesa, bastano pochi rumori di piatti e di posate per sentirsi sazi, fin quando dietro le persiane accostate il giorno muore.
Così, vestita di un abito leggero a motivi floreali, l’estate passeggia nel crepuscolo e gli uomini in canottiera che ridevano adesso stanno zitti. E’ l’ora di Venere nel cielo e dei bambini che giocano in segreto tra di loro il gioco dell’estate, gioco fatto di niente, che vellica il lago, che dice, ti ricordi quando anche tu…
Andrea Vitali